EUROSTOP

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“SUL REFERENDUM CONTRO I TRATTATI EUROPEI NON DOBBIAMO MOLLARE LA PRESA

di Sergio Cararo*

E’ vero che molto spesso abbiamo la sensazione che tra la realtà dei fatti e la percezione distorta della realtà prevalga la seconda. Il sociologo Filippo Viola ha dedicato a questo un libro/ricerca straordinario dedicato proprio alla “Società astratta” in cui evidenziava, anche con una inchiesta empirica, come la gente si orientasse, posizionasse o dividesse sui parametri di una società astratta, appunto, invece che su quelli della società reale in cui avvengono concretamente le cose che ne cambiano la condizione e l’esistenza.

Una verifica di questa divaricazione tra percezione e realtà l’abbiamo fatta anche noi. A cavallo tra la fine e l’inizio del secolo, abbiamo realizzato quella che viene definita “inchiesta di classe” tra le lavoratrici e i lavoratori italiani sulla loro soggettività, cioè su come valutassero le loro condizioni materiali e quello che gli stava accadendo intorno (dalla flessibilità alle privatizzazioni all’unificazione europea etc.).
Nei risultati di quella inchiesta condotta con più di 1400 questionari raccolti in decine di luoghi di lavoro e pubblicata da Cestes (“La coscienza di Cipputi”), c’erano anche due domande/risposte che ci aiutano nella discussione che stiamo facendo oggi. Alla domanda su cosa lavoratrici e lavoratori pensassero dell’unificazione europea, la risposta è stata positiva quasi in modo plebiscitario. Alla fine degli anni ‘90 erano del resto tutti europeisti, senza se e senza ma. Alla domanda successiva su quali fossero le conseguenze del Trattato di Maastricht (in vigore da sette anni, dal 1992), la maggioranza ha risposto invece che erano negative. Una contraddizione fin troppo evidente tra la nostra gente su quella che era la realtà percepita positivamente (l’unificazione europea) e le sue conseguenze materiali (le dolorose politiche antipopolari imposte dal Trattato di Maastricht).

Quando il 6 aprile dello scorso anno abbiamo depositato in Corte di Cassazione il testo della proposta di legge di indirizzo costituzionale che consentisse il referendum sull’adesione dell’Italia ai Trattati europei, abbiamo valutato che ci fossero due spazi politici aperti:

1) il primo è che dopo le elezioni del 4 marzo, in Parlamento per la prima volta c’era una maggioranza non appiattita sull’europeismo liberale. Una condizione inimmaginabile in tutto il venticinquennio precedente. I risultati ci hanno restituito una situazione ben diversa. Le roboanti dichiarazioni no euro e contro le imposizioni della Commissione europea dei due partiti di maggioranza (M5S e Lega), sono capitolate alla prima verifica sulla Legge di Stabilità. E’ scattato il pilota automatico della Bce/Commissione, e il governo ha abbassato la testa come fece Tsipras nonostante l’esito del referendum sull’Oxi nel 2015. Lo spazio di opportunità che si era aperto per la battaglia tesa a introdurre la possibilità del referendum sui Trattati europei si è così richiuso nel giro di nove mesi.

2) Il secondo è il fatto che tra il 1992 e il 2016 in ben nove paesi dell’Unione Europea ci sono stati quindici referendum in cui la popolazione è stata chiamata ad esprimersi sui Trattati europei, e in nove casi su quindici la società ha detto NO. Dal giugno 1992 in Danimarca al giugno 2016 in Gran Bretagna, passando per il No di Francia e Olanda nel 2005 alla Costituzione europea e all’Oxi della Grecia del 2015, lì dove c’è stata la possibilità di svolgere dei referendum sui vincoli imposti dalla Ue, la gente ha potuto discutere pubblicamente e decidere politicamente se continuare a rimanere dentro la gabbia dei trattati o meno. Nei paesi più martoriati dai diktat della Ue – i Pigs come Italia, Spagna, Portogallo, a eccezione della Grecia – non è mai stato possibile sottoporre ad una verifica democratica e popolare l’adesione o meno ai Trattati europei. Solo la Spagna ha potuto tenere nel lontano 1986 un referendum sull’adesione alla Nato nello stesso momento in cui, contestualmente, entrava a far parte della futura Unione Europea (ma questo l’onorevole economista Borghi lo ignorava ed ha fatto una figura barbina, ndr).

Non solo. E’ decisivo sottolineare come nel punto di apice dell’ultima fase della crisi (2010), gli apparati europei abbiamo avviato una impressionante escalation di trattati sempre più vincolanti e restrittivi. I loro nomi sono spesso sconosciuti ma i loro effetti sono pesanti: Two Pack, Six Pack, Mes, Fiscal Compact etc. In ogni passaggio i vincoli del “pilota automatico” sono diventati più pesanti e impediscono ogni dissonanza in materia economica e sociale per i governi imbrigliati nella gabbia dei Trattati. Lo abbiamo visto in Grecia e lo abbiamo visto anche con l’attuale governo italiano, che alla fine è capitolato ed ha dovuto fare un gioco a somma zero sulle poste del bilancio per provare a modificare qualcosa su pensioni e reddito di cittadinanza. Le conseguenze di questo le vedremo nel prossimo autunno con la nuova Legge di Stabilità che dovrà fare i conti con le micidiali “clausole di salvaguardia” imposte dalla Ue e con una stagnazione economica che incide pesantemente sui parametri previsti dai Trattati europei.

Dunque la nostra battaglia per ottenere la possibilità che anche in Italia si possa sottoporre a referendum l’adesione o meno ai Trattati europei, si poggia su basi concrete, aspettative legittime e una visione democratica e di classe.

Infine, torniamo dalla questione da cui siamo partiti. I fatti contano o conta solo la loro percezione astratta o imposta da mass media, conformismo politico e senso comune tra la gente? Le difficoltà che abbiamo incontrato nella raccolta delle firme per strada o nei luoghi di lavoro sulle nostre proposte di legge per il referendum e sull’art.81, sono state relative alla “paura del salto nel buio” della gente rispetto ad una eventuale uscita dall’Unione Europea ma soprattutto dall’Eurozona. Nonostante molti abbiamo verificato il peggioramento delle loro condizioni di vita, dei salari, dei diritti sul lavoro, negli standard del welfare dovuti direttamente ai vincoli dei Trattati europei, l’idea che questo meccanismo vada rotto per impostare le priorità sociali su altri parametri, ancora risente del terrorismo psicologico diffuso dall’establishment e veicolato anche dalle paure della sinistra nel dire le cose come stanno.

Eppure i fatti sono lì a dimostrare che quanto sosteniamo è vero e non campato per aria. Recentemente il rapporto di un centro studi tedesco, il Center for European Policy, ha quantificato il peggioramento materiale della popolazione italiana dovuto all’adesione alla moneta unica. Si parla di 73mila euro in meno a persona nel periodo che va dal 1999 al 2017. Subito si è messo in moto il meccanismo del killeraggio politico/mediatico teso a liquidare questo rapporto come inattendibile e manipolato dagli euroscettici. Ma poi si è scoperto che il board di questo centro studi è composto da europeisti tedeschi che hanno avuto funzione dirigenti negli apparati europei, solo per fare qualche nome ci troviamo Bolkestein, Tietmayer, Jurgen Stark etc. Insomma è proprio impossibile ascriverli al mondo degli euroscettici, sono quelli che hanno fatto la moneta unica e le direttive più infami dell’Unione Europea. Ed anche la quantificazione di quanto ogni famiglia ha perso con l’adozione dell’euro non deve sorprendere.

Infatti è difficile dimenticare l’intervista del 1992 del ministro Andreatta (lo stesso che nel 1981 volle la separazione della Banca d’Italia dal Ministero del Tesoro che fece esplodere il debito pubblico, ndr). In quella intervista che spiegava il perché della manovra finanziaria “lacrime e sangue” del governo Amato nel 1992, Andreatta rivendicava chiaramente che “il reddito delle famiglie italiane doveva diminuire di 5 milioni di lire l’anno”. Cinque milioni di lire sono più o meno 2500 euro di oggi, fatevi i calcoli e vedrete che la quantificazione delle perdite dovute all’adozione dell’euro fatta dal Centro studi tedesco sono praticamente sovrapponibili.

In conclusione. Abbiamo provato un primo “assalto” sul piano politico con l’obiettivo dell’introduzione del referendum sui Trattati europei e abbiamo fatto bene. Adesso dobbiamo insistere, non dobbiamo assolutamente abbassare il tiro, dobbiamo incalzare tutti – sia le forze di governo che quelle di opposizione – sulle ambiguità e l’opportunismo su questa palese subalternità alla gabbia dei Trattati europei che impedisce ogni alternativa al disastro sociale, economico e democratico esistente. Adesso vediamo quando potremo consegnare le firme e fare l’incontro con la Presidenza della Camera dei Deputati per porre politicamente tale questione. Ma alla prima occasione dobbiamo tornare alla carica, a tutto campo e con estrema determinazione, soprattutto tra la nostra gente, nel nostro blocco sociale di riferimento senza perdere troppo tempo nei “cenacoli della sinistra”.
Infine, visto che siamo alla vigilia delle elezioni europee, dobbiamo respingere con forza quella che Le Monde Diplomatique ha definito giustamente come “ingannevole contrapposizione” tra il mondo di Macròn e quello di Orban,Salvini etc. Non sono diversi né contrapposti, sono le due facce della stessa medaglia e dobbiamo combatterli entrambi, apertamente.

* intervento al convegno di Roma su referendum sui trattati europei e abrogazione art.81 organizzato da Usb ed Eurostop: “E adesso ne discuta il Parlamento e il paese”.

 

EUROSTOP ACCETTA LA SFIDA DI POTERE AL POPOLO

19 dicembre 2017

La Piattaforma Eurostop ha partecipato attivamente all’affollata assemblea tenutasi domenica 17 dicembre al teatro Ambra Iovinelli di Roma,  accettando così la sfida del processo che porterà alla lista Potere al Popolo nelle prossime elezioni politiche.

Per vedere concretamente questa opzione sul campo occorrerà adesso raccogliere le firme necessarie in tutti collegi elettorali, e bisognerà farlo rapidamente. Eppure, a giudicare dalla spinta e dal clima che si è respirato in una freddissima giornata di dicembre, anche questa tappa verrà affrontata con slancio, lo stesso che è stato imposto un mese fa dai compagni del centro Je So Pazzo di Napoli.

In qualche modo la natura e il ritmo impressi al processo di Potere al Popolo, anche in questo, hanno imposto la dovuta discontinuità rispetto a certe estenuate liturgie della “sinistra”. Un dato leggibile dalle quasi settanta assemblee locali che si sono svolte tra la prima  assemblea (18 novembre) e quella di domenica scorsa.

Il dibattito provocato da questa proposta ha attraversato tutte le realtà che l’hanno guardata con interesse già da come si era presentata. Come noto la Piattaforma Eurostop ha visto una sua vivace assemblea nazionale discutere e poi decidere a maggioranza che l’esperimento andava tentato. Ma anche dentro i partiti comunisti “storici” o molti collettivi territoriali la discussione e la decisione risulta non essere stata affatto semplice.

Eppure in queste settimane si è capito che si respirava un’aria diversa, che ha portato in tanti a dire “accettiamo la sfida”, mediando dove era necessario e forzando dove era indispensabile. Potere al Popolo si è data gli strumenti minimi per cominciare a ingaggiarla: un simbolo (che pure è stata oggetto di molte discussioni) e un responsabile politico (imposto dalla legge elettorale) che è stato riconosciuto ai compagni di Napoli che si sono assunti la responsabilità di avviare il processo.

L’assemblea all’Ambra Jovinelli ha concesso poco, anzi pochissimo, a liturgie e artifici politicisti. L’intervento introduttivo di una compagna di Napoli ha fatto riverberare con grinta parole, interlocuzioni sociali e indicazioni che sembravano seppellite nel pantano della politica messa a disposizione in questi anni dalla sinistra.

A marcare la differenza è l’aver affidato il primo intervento a Bassam Saleh, compagno palestinese conosciuto e stimato, per rendere omaggio alla nuova Intifada ingaggiata dal popolo dei Territori Occupati.

Hanno portato i loro contributo di esperienze sul campo i compagni spagnoli di Unidos/Podemos e di France Insoumise, confermando come negli altri paesi europei si abbia assai meno paura di parole come rottura con l’Unione Europea o recupero della sovranità di quanta, assurdamente, ce ne sia nei residui della sinistra italiana.

Prendono la parola donne che hanno segnato la storia recente dei movimenti sociali e del conflitto nel nostro paese: Haidi Giuliani e Nicoletta Dosio.  Dalla lontanissima frontiera di Lampedusa ha portato l’intervento il collettivo Askavusa che agisce su quell’isola diventata oggetto della militarizzazione e del lato oscuro dell’Unione Europea. Giorgio Cremaschi, per conto della Piattaforma Eurostop, ha messo nero su bianco la convinzione che la sfida di Potere al Popolo vada accettata con senso dell’unità e maturità da tutti e che la “rottura” è un approccio necessario per rimettere in moto un processo di cambiamento oggi necessario.

Lo storico napoletano Geppino Aragno, che ci ha creduto sin dall’inizio, è latore di un messaggio di augurio importante come quello di Luigi De Magistris.

I segretari del Pci, Mauro Alboresi, e del Prc, Maurizio Acerbo – pur dovendo affrontare un aspro dibattito interno – hanno confermato che accetteranno la sfida di Potere al Popolo. Prima di loro l’europarlamentare Eleonora Forenza aveva insistito molto su questo.

Molti interventi (Nicoletta Dosio, Eleonora Forenza, Collettivo Askavusa, Campagna Noi Restiamo), hanno sottolineato come il dato della rottura con l’Unione Europea possa e debba essere per un lato un obiettivo coerente con un impianto anticapitalista, per l’altro il vero elemento di sintonia con le altre forze alternative nei vari paesi europei.

Ci sono stati molti interventi – dal tenore del Teatro dell’Opera in via di licenziamento all’operaia di Almaviva licenziata e riassunta con una sentenza che ha fatto rumore, dagli universitari della campagna Noi Restiamo a compagne e compagni dei territori pugliesi devastati dal Tap o ai giovani e giovanissimi compagni di Catania. E’ sferzante l’ironia dell’attrice e conduttrice Francesca Fornario che è stata subito della partita intorno alla sfida di Potere al Popolo.

A tirare le conclusioni è stata Viola Carofalo, giovane compagna di Je So Pazzo. Il suo richiamo è quello al lavoro sociale capillare, a sostituire con la guerriglia dei rapporti diretti la mancanza dei media mainstream,  ad essere “militanti” in questa sfida, una parola rimossa o pronunciata quasi con pudore fino a questa mattina e che invece è tornata ad assumere il suo valore dinamico, includente, responsabilizzante di chi sa che questa sfida andrà giocata non tanto nel ristretto recinto del popolo della sinistra quanto nei settori sociali devastati e impoveriti da dieci anni di misure antipopolari e venticinque anni di sanguinosa, inutile e strumentale “riduzione del debito pubblico” imposta dall’Unione Europea dal trattato di Maastricht a oggi.

La sfida è stata accettata con entusiasmo dai quasi mille compagne e compagni che hanno affollato il teatro. Il finale è stato spiazzante e spontaneo per tutti: si è sentito un coro di mille voci cantare Bandiera Rossa e finalmente questa volta non è sembrato un rito consolatorio ma la riaffermazione di una identità politica vera.  Non basteranno ancora a fare il quorum, ma sono più che sufficienti per riattivare una militanza diffusa e motivata in tutto il paese, per ingaggiare finalmente la sfida con un nemico di classe che da troppo tempo non incontra nemici sul suo cammino, e che farà bene a cominciare temere la rimessa in circolazione di una opzione che dichiara come programma “Potere al Popolo”. La Piattaforma Eurostop, ci sarà in tutte le realtà dove è presente e agisce.

Assemblea Nazionale di Eurostop/Piattaforma sociale del 21/11/2015. Primi video degli interventi:

ASSEMBLEA NAZIONALE DELLA PIATTAFORMA SOCIALE EUROSTOP A ROMA: UN BUON INIZIO

(dalla redazione di Contropiano un breve dispaccio sull’assemblea nazionale della Piattaforma Sociale Eurostop, tenutasi sabato 21 novembre a Roma)

Un buon inizio. Report sull’assemblea nazionale della Piattaforma Sociale Eurostop tenutasi a Roma.

Sabato 21 novembre a Roma si è svolta la prima assemblea nazionale della Piattaforma Sociale Eurostop. Una sala piena (almeno trecento persone provenienti da diverse città) hanno discusso fino al pomeriggio su quali contenuti e come organizzare un movimento che rompa completamente con i meccanismi, la politica, i finanziamenti della guerra e del riarmo e con le misure liberticide che l’accompagnano. Dopo la strage terroristica di Parigi (non la prima in Europa, c’erano già stati Madrid e Londra), i governi europei hanno rilanciato e ampliato quella guerra che dura da 25 anni e che è causa e non risposta al terrorismo. Tutti i partecipanti all’assemblea hanno affermato il No alla guerra come prima discriminante oggi, anche perché la guerra rafforza autoritariamentequei meccanismi del “vincolo esterno” che grava ormai da anni sul nostro e su altri paesi: l’Unione Europea, l’euro, la Nato. Un vincolo esterno fatto di trattati diventati indiscutibili e approvati senza mai ricorrere alla verifica del consenso popolare. Un vincolo che attraverso l’austerity ha riportato indietro di decenni conquiste e diritti sociali e politici, un vincolo che trascina sistematicamente i paesi europei dentro le guerre e gli interventi militari all’estero, facendone ricadere le conseguenze solo sulle popolazioni, sia nei paesi aggrediti che in quelli aggressori.
A partire dalla determinazione di rompere con questa troika – Ue, euro, Nato – una coalizione di forze politiche, sindacali, movimenti sociali, intellettuali, ha deciso di superare settarismo e disgregazione e di lavorare alla ricomposizione di un fronte intorno a pochi obiettivi con valore politico generale, una piattaforma sociale appunto che su difesa della democrazia, lavoro, pace, rottura con il vincolo esterno, riapra finalmente una prospettiva di cambiamento da troppi anni rimossa o disattesa dalla paura e dall’opportunismo egemone nei gruppi dirigenti della sinistra italiana.
Dopo una introduzione di Giorgio Cremaschi, si sono sviluppati 24 interventi nei quali sia la realtà politiche e sociali, sia come contributi individuali, si è entrati nel merito delle proposte e delle aspettative che sono alla base della Piattaforma Sociale Eurostop. Contributi importanti di organizzazioni sociali- dal movimento No Tav alla Carovana delle Periferie, dalla Usb alla Cub , dalla Campagna Noi Restiamo alla Rete No War– a contributi di organizzazioni politiche e reti nazionali – da Ross@ al Pcdi, da settori del Prc alla Rete dei Comunisti, dalla Rete Noi Saremo Tutto al Movimento Popolare di Liberazione, dal Fronte Popolare alla Sinistra No Euro. Positivo anche il contributo personale di Bifo. Importanti gli interventi del compagno greco di Unità Popolare e del compagno spagnolo della Piattaforma Salir dall’Euro, due realtà che sono nate negli ultimi tempi in due paesi Pigs proprio sulla base delle contraddizioni imposte dalla gabbia dell’Unione Europea e dell’euro e che sono arrivate alle medesime conclusioni della Piattaforma Sociale Eurostop.
Gli appuntamenti emersi dall’assemblea, in qualche modo delineano una agenda politica autonoma che verrà definita nei dettagli dal coordinamento che ha preparato l’assemblea e che si riunirà nel mese di dicembre.
In primo luogo ci sono le iniziative contro la guerra, la prima già nei prossimi giorni a Firenze (mercoledi 25 novembre) in occasione del vertice della Nato dove la campagna Eurostop sarà presente con un proprio spezzone e un proprio striscione. C’è poi la costruzione di una prima mobilitazione nazionale il 16 gennaio in occasione del 25simo anniversario dei primi bombardamenti su Bagdad nel 1991, che avviarono la prima guerra del Golfo e dunque innescarono quella che è diventata la “guerra dei trent’anni” in corso.
La seconda iniziativa è la costruzione di una giornata di mobilitazione coordinata nei paesi Pigs (e in altri paesi europei che vorranno integrarsi nella giornata) per la prossima primavera, con manifestazioni nelle diverse capitali.
La terza è la campagna per chiedere un referendum sui Trattati europei che strangolano il nostro egli altri paesi. Una campagna che sta crescendo anche in Grecia, Spagna e Francia. Questa battaglia sul referendum si arricchisce inoltre di una scadenza e di un contenuto decisivo nel nostro paese: il No nel referendum/plebiscito convocato da Renzi per ottobre sulle controriforme costituzionali. Un passaggio storico per cercare di stoppare e far saltare il progetto di governance autoritaria di Renzi e dei suoi sponsor europei.
Infine, c’è la questione decisiva dell’organizzazione. La Piattaforma Sociale Eurostop deve adesso strutturarsi e approfondirsi a livello regionale. Per il mese di gennaio saranno convocate assemblee locali che capillarizzino il percorso nazionale avviato sabato 21 novembre a Roma e concretizzino nei territori le battaglie impostate nella Piattaforma Sociale Eurostop.

Sgombero “pistole alla mano”, la denuncia di Ross@ Pisa

Ross@Pisa si unisce al coro di denunce in merito ai fatti occorsi nella giornata di ieri all’interno degli spazi universitari della città di Pisa. Riteniamo che quanto avvenuto sia di una gravità inaudita: una risposta repressiva con tanto di pistola alla mano puntata contro gli studenti per celare speculazioni e dirette responsabilità politiche dell’ateneo. Tutto ciò è intollerabile e va ad aggiungersi ad un inasprimento delle azioni persecutorie condotte dalle forze dell’ordine che in questi giorni, simultaneamente in tutta Italia, stanno perpetrando nei confronti di studenti, attivisti e semplici cittadini. Quanto successo a Pisa ha la stessa matrice di Milano, Roma e Bologna: abbiamo visto polizia e carabinieri in assetto da guerra scagliarsi contro famiglie, bambini ed anziani dietro il pretesto del rispetto della legalità; stiamo assistendo qui a Pisa ad una progressiva e sempre più insopportabile militarizzazione dei nostri spazi pubblici che fino a non molto tempo fa erano luoghi di democrazia, di esperienze sociali e di lotte contro le peggiori ingiustizie. Il nostro territorio sta diventando un vero e proprio laboratorio di educazione ed accettazione all’uso delle armi di cui la pistola puntata contro gli studenti ne è solo una delle prime conseguenze.
Come è stato già detto a proposito dello sgombero dell’ex-Telecom a Bologna, “l’unica soluzione è ribellarsi contro questa legalità che impone l’ingiustizia e educa alla ferocia”.
Non possiamo abituarci a tutto ciò, non vogliamo.

Anche Ross@Pisa chiede ragione del sistema CORROTTO E MAFIOSO difeso ARMI ALLA MANO dall’università di Pisa e dall’amministrazione della stessa città, chiede le dimissioni del rettore Augello, del direttore dell’economato Massantini e del capo della Digos Rainone.

DECRETO SANITA’. MANIFESTAZIONE AL MINISTERO DELLA SALUTE. ROSS@LANCIA L’ALLARME

1 ottobre 2015

di ROSS@ Roma

Gli attivisti di Ross@ hanno manifestato ieri pomeriggio sotto le finestre del Ministro della Salute Lorenzin per contestare radicalmente il decreto che taglia le prestazione sanitarie. Il raddoppio delle prestazioni ritenute “inappropriater” (da 108 a 208) è indicativo della “filosofia” che ispira un provvedimento dalla chiara natura antisociale e che riduce drasticamente gli standard sanitari di tutela della salute pubblica. Ross@ ha evidenziato come nella discussione sul decreto fino ad oggi ci sia stato un convitato di pietra cioè l’utenza, quelli che fanno le file alle Asl o che attendono mesi nelle liste di attesa (che diventano però miracolosamente pochi giorni se si ricorre alla sanità privata all’intramoenia a pagamento) per fare analisi anche urgenti. La polarizzazione dello scontro tra governo e organizzazioni dei medici, presenta un panorama e uno spettro di soluzioni del tutto parziale e soprattutto fuori bersaglio sul significato del servizio sanitario nazionale.

Una delegazione di Ross@ e dell’Usb è stata ricevuta al ministero dal vicecapo di gabinetto, la dott.ssa Camera e altri due funzionari. Il colloquio è stato conciso ed è andato subito al merito. “Noi non esprimiamo perplessità sul decreto, noi siamo apertamente contrari e faremo di tutto per complicare il suo cammino” è stato affermato nell’incontro. Questo provvedimento ha la stessa filosofia ispiratrice della Legge Fornero: colpire i settori popolari. “E’ ovvio che il combinato disposto tra aumento dell’età pensionabile e riduzione delle prestazioni sanitarie non può che avere conseguenze pesanti sulle aspettative di vita della popolazione. La Grecia è li a dimostrarlo” ha detto la delegazione. “I tagli del governo si sommano a quelli già effettuati dalle regioni sulle prestazioni e i presidi sanitari”; “Con questo provvedimento si spiana la strada alla predominanza del settore privato nella gestione della sanità”. Insomma nessuno sconto di merito. La delegazione del Ministero della Salute non ha saputo indicare i tempi dell’iter del decreto. L’incontro si è concluso con l’impegno ad un nuovo incontro “di merito” che porti dentro la discusione anche la dimensione sociale ed estesa della salute – e dunque le esiegenze popolari – e non solo il confronto tra governo e organizzazioni dei medici.

Ross@ con il sit in di ieri ha inteso “lanciare il cuore oltre l’ostacolo” e lanciare il dovuto allarme affinchè nesuno, sul piano politico o sindacale, sottovaluti la posta in gioco rappresentata dal decreto sulla sanità. Il silenzio o la disattenzione registrate in questi giorni sono preoccupanti. Un lusso che non ci si può permettere, soprattutto quando ci si appresta a tagliare centinaia di milioni di euro (in alcuni casi miliardi) sulla salute per avere i soldi da destinare alle penali da pagare alla società Salini per il Ponte sullo Stretto di Messina o per non far arrabbiare i comandi delle forze armate che hanno respinto al mittente ogni accenno alla spending review sulle spese militari.

FRONTE PALESTINA – APPELLO CONTRO LA NATO E LE ESERCITAZIONI “ TRIDENT JUNCTURE”

1 ottobre 2015

Riceviamo e pubblichiamo:

Schermata 2015-10-01 a 11.36.05La battaglia per il controllo aeronavale del bacino del Mediterraneo e dell’area mediorientale innescata dall’imperialismo euro-atlantico, con le esercitazioni NATO che sono state avviate in questi giorni subirà un’ulteriore escalation verso il punto di non ritorno.

Le più grandi manovre militari Nato dalla caduta del Muro di Berlino battezzate Trident Juncture si terranno, infatti, dal 28 settembre al 6 novembre in Italia, Spagna e Portogallo, con l’impiego di circa 36mila uomini, 250 aerei, 50 navi da guerra.

In Italia ci sarà il centro di comando della componente aerea, in Spagna quello per le operazioni terrestri e dal Portogallo si guideranno le manovra navali, basandosi “su uno scenario fittizio di gestione di crisi”, come affermano i comandi dell’Alleanza Atlantica.

In realtà le manovre avranno lo scopo di oliare la macchina bellica imperialista in vista di prossime aggressioni militari e rappresentano una dimostrazione di forza verso gli avversari che ancora non si sono sottomessi. Un “movimento” che, sullo scacchiere mediorientale, segue la precedente “mossa del Cavallo” (di Troia) della guerra al terrorismo, dove i bombardamenti aerei imperialisti contro il cosidetto “Stato Islamico” – indebolito solo marginalmente – hanno comunque permesso la creazione de facto di “zone cuscinetto” sulla maggior parte del territorio siriano ai confini con la Turchia (seguendo l’esempio sionista del Golan, anch’esso siriano). Il tutto stabilendo inoltre una no fly zone riservata ai sorvoli dei propri bombardieri, coincidente col sedicente Califfato, in sella tra Siria e Iraq.

Una dinamica in parte vanificata dall’”arrocco” russo-iraniano a protezione del governo siriano, che ha reso quindi quantomai “opportune” manovre militari in così grande stile. Tenuto anche conto del malcelato disappunto delle alte gerarchie sioniste dovuto alla frustrazione della libertà di azione dei caccia sui cieli sirio-libanesi che ha fatto infuriare il boia Nethanyau, volato personalmente a Mosca per protestare, incassando solo un abbonamento telefonico privilegiato.

Un avvitamento al rialzo per la supremazia di aria, terra e mare drammatizzato anche con la guerra psicologica fatta sui fenomeni migratori, innescati dalle proprie aggressioni sulle direttrici meridionali e orientali e che, con le manovre Trident Juncture, vedrà l’Italia rimessa al centro dei giochi di guerra. Col poco lusinghiero ruolo di portaerei NATO, minacciosamente proiettata guarda caso proprio sulle stesse direttrici (Sud e Est), come presidio di frontiera della cittadella imperialista al confine con le turbolente periferie di cui Napoli e il Meridione sono – e saranno – epicentro nella faglia di rottura delle masse continentali e geostrategiche in rotta di collisione tra di loro.

Una servitù militare prona all’imperialismo occidentale, sancita da un quarto di secolo di partecipazione delle truppe italiane alle guerre di aggressione lanciate nel Mediterraneo e nel Medioriente contro popoli e nazioni non addomesticate e decenni di disponibilità territoriale ad ospitare basi – oltre cento -, aerei, navi, uomini e atomiche. Con l’aggravante di un riposizionamento strategico sionista, anche ultimamente ribadito dal guerrafondaio Renzi in visita a Tel Aviv. Una aggressività militare e diplomatica, mai smentita dagli (dis)onorevoli succedutisi sulle comode poltrone parlamentari che, mettendo da parte le loro beghe spartitorie, da destra a sinistra hanno sempre garantito il loro appoggio bi-partisan a tali politiche e ai relativi stanziamenti di fondi.

Anche economicamente la partecipazione italiana al militarismo capitalista ha un costo pubblico fatto di attuali 70 milioni di euro quotidiani (più di 25 miliardi annui), che aggrava la crisi delle famiglie ma riempe le casse dei capitalisti. A ben vedere, infatti, non solo di “servitù” politico-militare si tratta, bensì di una “quota” di partecipazione della borghesia imperialista italiana alla spartizione delle torte conquistate – o apparentemente conquistabili -, sullo scenario mondiale.

Con la speranza di dare una boccata d’ossigeno alla crisi sistemica del proprio sistema di dominio e sfruttamento di classe, per garantire super-profitti alle proprie multinazionali impegnate nei settori interessati dalla guerra.

Per questi motivi abbiamo deciso di partecipare alla manifestazione nazionale che si terrà a Napoli il prossimo 24 ottobre con una precisa scelta di campo: contro l’imperialismo e il sionismo, al fianco dei popoli che resistono contro di esso.

DALLA SOLIDARIETÀ ALLA LOTTA INTERNAZIONALISTA

CONTRO L’IMPERIALISMO AL FIANCO DELLA RESISTENZA DEI POPOLI!
FUORI L’ITALIA DALLA NATO E FUORI LA NATO DALL’ITALIA!

Fronte Palestina

www.frontepalestina.it

Sabato 3 ottobre

Ross@ Pisa promuove la presentazione del libro:

“LA MADRE DELL’UOVO”

di Giulio Laurenti

«Due storie s’incontrano: quella di Carlo Giuliani  a Genova nel 2001, con il destino di Ilaria Alpi che sette anni prima, in Somalia, indagava sul traffico di rifiuti tossici.  Ogni generazione crede di essere la prima a ribellarsi a una realtà ingiusta, ma il potere ricorda chi si ribellò in passato e sa quindi prevedere chi lo farà in futuro; per questo colpisce con precisione. Quale ombra getta questo intrigo sulle odierne forze dell’ordine d’Europa?»

Introduce Maria Pia De Salvo della Biblioteca A. Fisoni

Interviene Emanuela Grifoni di Ross@ Pisa sul tema: “da Gladio alla Gendarmeria Europea. L’Unione Europea si dota di un sistema repressivo sul modello italiano”.

Partecipa Haidi Gaggio Giuliani (Osservatorio contro la repressione)

Alla presentazione sarà presente l’autore.

Ore 20.30 CENA SOCIALE a sostegno dell’Osservatorio contro la repressione

Menù: pallette ai funghi – fesa di tacchino alle prugne con purea di patate – dessert

15 euro solo su prenotazione: tel. 050500442 – 3497192436

Promuovono l’iniziativa: Ross@ Pisa e Biblioteca A. Fisoni del Circolo agorà

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la madre dell'uovo

Ross@ Pisa a fianco di LUCCA ANTIFASCISTA

21 luglio 2015

Ross@Pisa parteciperà al corteo antifascista indetto per Sabato 25 Luglio insieme ai movimenti lucchesi per denunciare la vile aggressione subita in una delle loro sedi.

Sappiamo bene che Lega e partiti fascisti sono da sempre servi del capitale nella loro opera di distrazione della popolazione dai suoi veri nemici. Ed infatti, anche in questo caso, l’attacco mosso dal noto nucleo cittadino di fascisti non è stato affatto casuale: è stato rivolto a tutte quelle forze antagoniste al sistema PD che rappresenta oggi il vero nemico di classe.

Strutturare un pensiero reazionario di massa, alimentando il sentimento di odio e razzismo verso chi è socialmente più sfruttato ed emarginato, è strumentale al potere in quanto impedisce di riconoscersi e di condividere la rabbia e la lotta. Precari, disoccupati, pensionati e migranti, nella lotta per le condizioni di vita, devono riconoscersi come quella classe internazionale capace di mettere in discussione il rapporto sociale di sfruttamento chiamato capitalismo.

Rimuovendo invece la discriminante ideologica di classe e dell’antifascismo non sarà possibile opporsi a quella tendenza alla guerra insita in uno scontro ormai sempre più feroce tra blocchi imperialisti.

“Non si può sapere cos’è il fascismo se non si conosce l’imperialismo”. E dunque dobbiamo prima riconoscere l’Unione Europea come blocco imperialista in fase di costruzione per sapere come il fascismo operi al suo interno e ai suoi confini.

La grave crisi umanitaria che sta generando gli imponenti flussi di migranti costretti a fuggire da questa guerra economica permanentemente in corso è la diretta conseguenza delle politiche volute dall’Unione Europea.

Essere antifascisti militanti significa per noi contrastare e denunciare politicamente tutte quelle forze reazionarie e populiste che alimentano tali processi e li sfruttano per ampliare la loro base elettorale xenofoba.

Per questo sabato prossimo saremo in piazza con LUCCA ANTIFASCISTA.

http://www.retedeicomunisti.org/index.php/documenti/959-ross-pisa-al-fianco-di-lucca-antifascista

EVENTO FB: https://www.facebook.com/events/1421827084814552/

antifascismo2

…E adesso referendum anche in Italia!

IL NO DEL POPOLO GRECO CONTRO I DIKTAT DELLA TROJKA RIAPRE LA LOTTA PER IL CAMBIAMENTO. ADESSO REFERENDUM ANCHE IN ITALIA E NEGLI ALTRI PAESI

Comunicato nazionale di Ross@

Ross@ esprime il più grande apprezzamento per la dignità e il coraggio dimostrato dal popolo greco che ha espresso il proprio NO all’ennesimo accordo capestro imposto dai carnefici dell’Unione Europea, della Bce e del Fmi.
Il risultato di questo referendum può produrre un passaggio straordinario nella storia europea, nell’affermazione della democrazia contro la logica dei diktat e nelle possibilità del conflitto sociale di cambiare lo stato delle cose presenti.
In queste ore dobbiamo agire affinchè anche il nostro paese, insieme agli altri devastati dalle misure di austerità, si sintonizzi con la possibile rottura che si potrebbe produrre in Grecia. A cominciare dalla battaglia affinchè anche in Italia i trattati europei (incluso quello che ha istituito l’euro) siano sottoposti a referendum popolare.
E’ dal 21 marzo 2014 che alla Camera dei Deputati Ross@ ha depositato un dispositivo per far tenere anche in Italia un referendum sui Trattati Europei finora sottoscritti dai governi che si sono succeduti. A maggio di quest’anno il M5S ha depositato le firme della legge di iniziativa popolare che consenta il referendum sull’adesione all’euro.
Riteniamo che sulla richiesta di referendum anche in Italia occorra aumentare al massimo la pressione, sia per allargare la “breccia” aperta dalla Grecia, sia per smascherare tutte le ipocrisie e le complicità della politica nell’asservimento o meno ai diktat delle oligarchie europee e delle banche.
Facciamo appello a tutte le forze politiche, sociali e sindacali a porre fine ad ogni illusione sulla riformabilità dell’Unione Europea ed a posizionarsi per una sua rottura, con ogni mezzo necessario. Oggi la rottura con l’Unione Europea e l’Eurozona non è più una battaglia di opinione ma una scelta strategica sul futuro e la sopravvivenza dei popoli, della democrazia e degli interessi popolari.
Il referendum del 5 luglio in Grecia ha dimostrato davanti ai nostri occhi come la realtà può cambiare il suo corso e come solo scelte coraggiose possono dare il segno alla lotta per il cambiamento.

E’ ora di rompere la gabbia dell’Unione Europea. OXI!

30 giugno 2015

Ross@ intende esprimere il massimo sostegno al popolo greco chiamato coraggiosamente a esprimere il proprio NO all’ennesimo accordo imposto dai diktat dell’Unione Europea, della Bce e del Fmi.

Per questo Ross@ Pisa aderisce e partecipa al presidio in solidarietà col popolo greco indetto per giovedì 2 luglio, ore 18 in p.zza XX settembre a Pisa.

Se domenica prossima il popolo greco dirà OXI nel referendum convocato, si produrrà un passaggio straordinario nella storia europea, nell’affermazione della democrazia contro la logica dell’austerità e nelle possibilità del conflitto sociale di cambiare lo stato delle cose presenti.
Ross@ è stata una precorritrice in tal senso, avendo depositato alla Camera dei Deputati nel marzo 2014 un dispositivo per chiedere un referendum – anche in Italia – sui Trattati Europei (incluso quello istitutivo dell’Eurozona) finora sottoscritti dai governi che si sono succeduti.
Riteniamo che su tale richiesta occorra aumentare al massimo la pressione per allargare la “breccia” aperta dalla Grecia per poi spingere per una rottura dell’Unione Europea, con ogni mezzo necessario.
Siamo sempre stati convinti dell’irriformabilità dell’Unione Europea a dispetto della passività, complicità e ipocrisia di alcunigrandi sindacati, dei partiti di governo e della sinistra radicale perfettamente asserviti ai diktat delle oligarchie europee e delle banche.
Non c’è infatti nulla di progressivo e avanzato in un continente che distrugge il suo più importante risultato, lo stato sociale, attraverso criminali compromessi a ribasso tra austerità e diritti.
Il fiscal compact e le politiche d’austerità di BCE e Unione Europea stanno condannando alla miseria decine di milioni di lavoratrici e lavoratori e larghe fasce sociali, tagliando salari e pensioni, diritti e occupazione, servizi e cultura. Occorre lottare contro questa Unione Europea, contro i suoi trattati eretti a difesa dell’interesse di banche, finanza e speculatori. Senza questa rottura non si potrà affermare la necessaria unità e solidarietà di classe delle lavoratrici e dei lavoratori d’Europa e non si potrà uscire dalla crisi.

Sosteniamo con forza la Grecia. Diciamo anche noi OXI!

Rossa Grecia

SULL’EUROPA E SULL’EURO

Analisi e proposta politica di Ross@

Indice
1. Introduzione
2. Teoria e forma della governance dell’Unione Europea: verso una nuova forma-
Stato
3. L’Esercizio della “governance”: trattati, dispostivi e nuovi apparati
4. Capitalismo finanziario, debitocrazia e unione monetaria: l’euro come strumento politico della governance
5. Geopolitica e imperialismo

1. Introduzione
L’analisi e la sintesi politica che Ross@ di seguito propone, muove dalla propria riflessionesul tema Europa e unione monetaria. Non è nelle intenzioni di Ross@ fare della semplice “politica culturale”, ma ritiene che ragionare su questi temi sia già in sé un atto politico fondamentale e necessario, per incidere concretamente e per promuovere attivamente un orientamento politico in grado sovvertire lo stato di cose presente. L’angolo prospettico scelto ribadisce la centralità della “questione europea” e del superamento del sistema di governance incarnato nell’UE, come elemento chiave di una politica di emancipazione, che contraddistingua una reale forza di sinistra e anticapitalista. Il presupposto del ragionamento contenuto nella proposta ruota attorno al tema della “rottura e dell’unità”. Rottura con il sistema di “governance” della UE e unità in quanto aggregazione più ampia possibile sulla base dei contenuti, con tutte le forze e i singoli che si ritrovano nella dimensione della rottura. Non intendiamo con questo una semplice sommatoria di ciò che già esiste, nell’intento di riunire le membra sparse della sinistra antagonista, in modo autoreferenziale e identitario, ma cercare aggregazione sulle tematiche proposte.

Siamo consci che abbiamo scelto un angolo prospettico che ha favorito certe tematiche trascurandone volutamente altre. Riteniamo che le questioni volontariamente omesse debbano essere affrontate in una riflessione dedicata: per esempio la questione lavoro, precarietà e sindacato nel contesto italiano ed europeo, che ci ripromettiamo, quindi, di mettere in campo a breve. Inoltre, è necessario aprire questa riflessione ad un contesto extra-nazionale e più ampio. Anche su questo versante ci proponiamo di rimandare a breve lo sviluppo di un dibattito e un’azione politica che coinvolga soggetti non italiani.

2. Teoria e forma della governance dell’unione europea: verso una nuova forma stato.

Situazione
La costruzione europea e la sua architettura istituzionale vennero sin dall’inizio concepiticome un progetto politico, pertanto è riduttivo considerare l’Unione europea come la sedimentazione graduale di una sorta d’inevitabile integrazione economica. La lettura dell’UE come costruzione incompleta poiché “solo economica” (e per questo mancante della sua parte politica) è del tutto fuorviante, ma alimenta ancora gran parte dell’asfittico dibattito italiano sul tema Europa. Va innanzitutto sottolineato che tale costruzione sovranazionale è un progetto di lungo periodo, databile almeno a partire dalla fine della seconda guerra mondiale(1) e di cui solo ora incominciamo ad intravvedere la sua compiuta forma. Le prime comunità europee traggono origine, infatti, da una precisa ideologia, l’ordoliberalismo(2), che pone come principio cardine la costruzione di uno stato regolatore, basato sulla tutela del principio di concorrenza a la salvaguardia del libero mercato. Si tratta di una dottrina e di un’ideologia, che considera lo stato di diritto come elemento formalizzante delle regole del gioco economico, in cui gli unici veri attori sono i singoli, considerati come individui o imprese. Lo stato di diritto cambia forma in questo capitalismo rinnovato, facendosi esclusivamente garante di un quadro giuridicoistituzionale dove l’unico obiettivo è, appunto, la garanzia delle regole del gioco economico tra imprese e singoli.

Altro elemento cardine della costruzione europea è rintracciabile nel funzionalismo. Un approccio che operò una svolta nel campo delle relazioni internazionali, affermando il principio di separazione dell’autorità sovrana da un territorio delimitato. La “sovranità” onnicomprensiva avrebbe dovuto frammentarsi ed essere ricondotta ad attività specifiche di gestione, ad una funzione(3), svincolata dalla dimensione territoriale normalmente coincidente con il confine nazionale. Si antepone così la “funzione”, alla ragion di stato e alla sovranità democraticamente intesa. Sovrana diventa la funzione, il “come si decide” (la pura gestione di un settore in senso tecnico) e non il “chi decide”, il “perché si decide”, verso quale direzione, a favore di quale soggetto sociale ecc. La dimensione funzionale, tuttavia, non è mai neutra, ma è sempre a favore del grande capitale. In base all’assunto funzionalista l’idea di sovranità può benissimo sciogliersi in un sistema di norme extrastatali, in regimi regolatori che debordano necessariamente la sfera nazionale, poiché esigenze funzionali (trasporti, energie, comunicazione, ecc.) devono essere gestiti in modo congiunto, al di fuori dallo stato.

La disgregazione del modello westfaliano (4) dopo la seconda guerra mondiale non ha, come spesso erroneamente si crede, portato all’indebolimento degli stati, ma ha consentito al capitalismo europeo di riorganizzarsi e reinventarsi una “sopravvivenza” degli stati stessi in una nuova forma di “statualità”, e di ordine, secondo il principio della “sovranità condivisa” (eterodiretta dagli USA). Le origini di questo primo esperimento di nuova forma stato sono rintracciabili nella creazione della CECA (1951) e CEE (1957) (5). Non fu il risultato di una semplice cooperazione di carattere intergovernativo e di accordo fra stati, ma di un progetto che conteneva in sé il germe della sovranazionalità basata sull’ordoliberalismo e il funzionalismo; che prevedeva cessioni di quote di sovranità e che creava nuove istituzioni sovranazionali sganciate dai classici meccanismi di democrazia rappresentativa. L’Unione europea che si è venuta a creare, quindi, non è né un super stato né una federazione, ma piuttosto una super struttura parastatale, contenente il “con”, il “fra” e l’“oltre” gli stati.

Una struttura che tiene insieme residuali pezzi di classica forma stato (“con”), facendoli interagire (“fra”), ma che allo stesso tempo è capace di creare un nuovo ordine integrato al mercato (“oltre”). Una struttura di “governance” multilivello. Questa struttura multilivello si gioca in modo osmotico su più dimensioni: locale, nazionale e sovranazionale. In ambito nazionale occorre rintracciare i legami con il sistema che è parte integrante di questa nuova forma-stato e che nell’ambito politico si esprime con il partito della “governance”; in Italia attualmente incarnato dal Partito Democratico e dal sistema ad esso legato.

Sintesi e proposta politica. La questione della riformabilità di questa architettura, per come sopra descritta, è un’arma spuntata, perché la sua capacità trasformativa è già inscritta nel sistema stesso che la costituisce: dinamicità, adattabilità al sistema capitalistico. Per lo stesso motivo non sussiste la possibilità di riformabilità in senso democratico. Inoltre, ridurre la questione al “deficit democratico” indicherebbe, quindi, che all’Europa mancherebbe qualcosa, sia essa la democrazia “insorgente” e “conflittuale” (6), il potere costituente, un’opinione pubblica europea, una cittadinanza, un popolo, una federazione compiutamente politica, ecc. Il rischio di porre la questione in questo modo è che si crei una distinzione tra una “democrazia conflittuale” e una “democrazia istituzionale” che non stabilisca una frontiera, un taglio decisivo e che tale distinzione finisca per tradursi fatalmente in una democrazia a venire o nella sussunzione di entrambe nel processo circolare della “democratizzazione”, intesa già di per sé come politica. “Più Europa!”, dunque, ma il riformismo democratico (nelle sue varianti più o meno “radical”) aggiunge: “per un’altra Europa!”, cioè qualitativamente differente.

Al contrario, politica significa “rottura”. Rottura, ossia rovesciamento dell’intero sistema:

“Rottura con l’Unione Europea”.

È inevitabile porsi la domanda di come qualificare il termine “rottura”. Esso ha una valenza se viene inteso come un “campo strategico” e come “leva contingente”. Questa leva si deve articolare su un piano che non sia subordinato necessariamente a soluzioni e scenari aprioristicamente precostituiti (ritorno alla nazione, area mediterranea, generico internazionalismo, Europa dei popoli, ecc.), ma che abbia la capacità di inserirsi in ogni contesto di rottura apertosi concretamente e storicamente, sperimentando contemporaneamente nuove istituzioni e luoghi della politica nei quali rivitalizzare un’idea comunista, che non si richiami semplicemente a logiche identitarie (già viste e vissute) e residuali.

“Rottura con il sistema PD”

Rompere con il PD, vuol dire innanzitutto rompere con la produzione di consenso a mezzo consenso e con le relative politiche consensuali. Occorre ribadire la nostra interpretazione del PD come “partito di governance”, qualificando il renzismo come espressione congiunturale di questo modello e non come semplice partito-persona, “premierato assoluto” o epifenomeno del berlusconismo ecc. Il problema è il PD e il suo sistema, non Renzi. Con la parola sistema non si vuole identificare solamente un’organizzazione partitica, ma tutta la sua ramificazione in ambito sociale, culturale ed economico (dal sistema delle cooperative, al clero universitario di sinistra, al modello Repubblica e delle maggiori testate giornalistiche nazionali, ai centri di potere finanziari e bancari, come Monte Paschi ecc.).

3. L’esercizio della governance: trattati, dispositivi e nuovi apparati.

Situazione
L’impianto precedentemente esposto ha trovato esecuzione in un preciso ordinamento giuridico che si concretizza con il sistema dei trattati. La nozione di trattato in ambito europeo ha assunto un significato peculiare: non si tratta di un semplice accordo internazionale tra stati, ma di un atto giuridico ibrido che ha valore costituzionale. In questo senso i trattati europei, pur non essendo ascrivibili al modello della carta costituzionale in senso “classico”, producono tuttavia un diritto vincolante per gli stati membri, dotato di un primato sul loro diritto interno. Si tratta di un sistema di norme che si è evoluto attraverso le modifiche dei trattati stessi. Un’evoluzione e una ricodificazione che hanno prodotto diritto fuori dallo stato ma con il consenso degli stati: a partire dai trattati di Roma (1957) che hanno costituito la CEE e l’EURATOM, passando per la prima grande modifica in senso neoliberale con l’Atto Unico Europeo (AUE, 1986) e alla relativa spinta per il completamento del mercato unico e l’abbattimento delle barriere non tariffarie. Il trattato di Maastricht (1992) ha dato vita, poi alla UE e ha posto le basi per la creazione della moneta unica, dando seguito a successive modifiche: il trattato di Amsterdam (1997) e quello di Nizza (2001), che hanno consolidato l’europeizzazione dei settori in materia di immigrazione, cooperazione poliziaria, giustizia, affari interni e introdotto una carta di diritti fondamentali di chiara matrice neoliberale. L’ultima modifica risale al trattato di Lisbona (2009). Con quest’ultimo trattato si ha la definizione della razionalizzazione giuridica dell’Unione Europea, anticipata dal fallito trattato costituzionale (2004), e che porta la forma di super struttura parastatale ad un grado molto avanzato di sviluppo, consolidandone il quadro quasi-federale ed estendendo i poteri del Parlamento europeo.

Si tratta di un sistema neo-costituzionale multilivello, che ingloba le costituzioni
nazionali e al tempo stesso le modifica. Si può quindi a ragione, parlare di una costituzione senza stato oltre che di una costituzione senza popolo. Nonostante l’Unione Europea faccia meno di questi due riferimenti (stato-popolo) – per questo essa non è definibile come un super stato – non rinuncia tuttavia a formare un ordine ideologico (individualismo, libero mercato, concorrenza, atomizzazione della società, ecc.); dotato anche di apparati (per es. la rete di agenzie tecniche chiamate a coadiuvare il processo legislativo. Per es. l’autorità per la sicurezza alimentare EFSA, l’ufficio per l’armonizzazione del mercato interno OAMI, l’agenzia europea per i medicinali EMA, ecc.); dotato di regimi di controllo (per es. Frontex per il controllo delle frontiere e i flussi dei migranti, Europol per la cooperazione poliziaria, l’Unione bancaria per la vigilanza degli istituti di credito, ecc.) e una nuova tipologia di amministrazione pubblica (“soft law”, ossia atti o procedure informali, pseudo consultazioni come i libri verdi e i libri bianchi sul lavoro, l’ambiente, ecc.) che eludono e rendono inutile l’espressione popolare ed erodono il diritto al lavoro (come il Patto Euro Plus del marzo 2011, che aveva chiesto agli Stati di assicurare l’evoluzione del costo del lavoro in linea con la produttività, attraverso la “revisione degli accordi di fissazione dei salari e, quando necessario, del livello di centralizzazione del processo di negoziazione e dei meccanismi di indicizzazione, pur mantenendo l’autonomia delle parti sociali nel processo di negoziazione”).

In questo nuovo quadro giuridico normativo è stato inserito l’Euro come parte integrante e non disgiunta dei trattati. Occorre ricordare che il progetto di unione monetaria risale ai primi anni ’70 (piano Werner) e che prima di diventare moneta circolante si è concretizzato nel controllo dei tassi di cambio tra stati membri dell’unione, in SME (Sistema monetario europeo) e successivamente, con la creazione della BCE, in vera e propria unione monetaria (Euro che nasce, come progetto francese volto a contenere l’espansione tedesca e che invece si traduce, per eterogenesi dei fini, in un progetto particolarmente favorevole all’economia della Germania). La creazione dell’Euro accompagna, quindi, il processo stesso di integrazione europea e l’evoluzione stessa dei trattati. I parametri di Maastricht e il Patto di stabilità e di crescita sono, infatti, funzionali all’integrazione monetaria per un’Europa costruita sul mercato unico e dotato quindi di moneta unica.
Mentre all’interno degli stati membri il sistema giuridico si è caratterizzato da un’evoluzione anche in senso democratico, dovuta alla progressiva limitazione della discrezionalità del potere statale (conquista diritti sociali e collettivi) e aprendo margini di intervento popolare democratico in ambito costituzionale, nel sistema dell’UE nessun elemento popolare è mai intervenuto nel processo di formazione del sistema giuridico (sovrani dei trattati restano i governi). Ciononostante l’ordinamento giuridico europeo ha progressivamente acquisito la sua autonomia e tale ordinamento non è assimilabile nella sfera del diritto internazionale ed è molto più incisivo di quest’ultimo nel determinare effetti “retroattivi” sul diritto interno degli stati membri. Da questo per esempio deriva un’esclusiva competenza dell’UE a poter sottoscrivere trattati internazionali, soprattutto in ambito commerciale, come TTIP, TISA, TPP, ecc. con l’effetto di sottrarre sovranità agli stati membri e al controllo democratico (sono accordi di ambito commerciale la cui influenza e pervasività va ben al di là della sfera economica inerente la circolazione delle merci, ma sono volti anche al consolidamento della super struttura parastatale ed inseriti in relazioni interimperialistiche).

Sintesi e proposta politica.
Visto quindi il carattere sui generis della costruzione comunitaria e la particolare natura appena esposta dei trattati europei, occorre porre con forza il principio della forzatura e rottura dei trattati, come elemento prioritario di lotta politica, superando le limitazioni settoriali e mirando alloro intero impianto.

Come portare avanti questa lotta?

Sicuramente con le battaglie costituzionali e referendarie che mettono in discussione indirettamente l’impianto dei trattati e rimettono al centro l’elemento di sovranità democratica. Come per esempio la cancellazione del pareggio in bilancio nell’Art. 81 della Costituzione.

Ci basta questo?

No. Occorre assumere pienamente la prospettiva di un orizzonte post-democratico ed essere consci che la liberal democrazia (e gli annessi suoi strumenti giuridici) è andata irreversibilmente in pezzi. Occorre mettere in discussione l’intangibilità dei trattati europei, andando al di là dello stesso ripristino delle disposizioni costituzionali. Cominciamo ad affermare che un trattato regolante tutta la vita economica e occupazionale di un paese o di una regione non può essere definito semplicemente come trattato internazionale in termini classici. Per questo occorre portare la battaglia su un livello più alto e prendere in considerazione la critica del recupero dello stato nella sua forma socialdemocratica e liberale, per come lo abbiamo conosciuto fino alla fine degli anni Settanta. Concretamente non si dovrebbe parlare solo del ripristino di diritti perduti, ma proporre anche un avanzamento verso nuovi principi giuridici, come la pronuncia popolare su trattati che di “internazionale” non hanno più nulla.

In questa fase, per il momento, occorre rimettere in discussione l’articolo 5 della Costituzione che impedisce la pronuncia popolare sui trattati internazionali, in modo da poterli minare dal basso e aprire le contraddizioni per la rottura dell’Unione europea. Questo comporta lo smarcarsi da due attuali diversi approcci. Il primo che identifica la sfera del diritto come sempre coincidente con il potere e, dunque, sempre e comunque nemica, poiché rappresentante la “macchina statale” nella sua articolazione localenazionale-sovranazionale. Questo approccio non è contestabile sul piano teorico, ma lo è su quello politico: nella mancata considerazione degli attuali rapporti di forza in campo.
Tale approccio si declina sovente in micro-lotte, che pur comprendendo lo scontro con l’UE, ne perdono l’orizzonte complessivo e si richiudono in ambito sociale e locale, rischiando così di divenire poi perdenti qualora l’austerità dovesse essere superata da politiche più intelligenti. L’altro approccio da cui occorre smarcarsi è quello della lotta ripiegata solo su battaglie legalistiche o giuridiche. Piuttosto dovremmo lavorare discriminando al loro interno le forze disposte ad allargare il discorso in direzione della rottura con UE e sistema PD, facendo scontrare queste proposte con il loro limite interno spingere le battaglie costituzionali al punto in cui si scontrano con i meccanismi UE, dichiarando così la necessità della loro trasformazione in “altro”.

4. Capitalismo finanziario, debitocrazia e unione monetaria: l’euro come strumento politico della governance.

Situazione.
Il periodo che va dalla fine della seconda guerra mondiale fino alla fine degli anni ’60, è contraddistinto dal patto fordista “capitale-lavoro”, che ha permesso allo stesso sistema capitalistico di autoalimentarsi e che è stato caratterizzato da crescita e pieno impiego di matrice keynesiana. Il sistema, però, comincia a dare i primi segni di crisi da sovrapproduzione negli anni ’70 e in questo periodo ha luogo la prima soluzione messa in campo dagli stati per rinviare la crisi e “guadagnare tempo” (7): “la soluzione inflazionistica”. L’erosione dei salari era contenuta da sindacati forti che erano in grado di tutelarli in un regime di indicizzazione, mantenendo al contempo le strategie di piena occupazione in una sfera di stabilità del sistema voluta dal capitale stesso. Sebbene l’inflazione non incidesse sui salari, erodeva, però, pian piano il patrimonio e il margine di profitto del capitale che, assieme allo stato, procedette ad adottare una nuova soluzione: “l’indebitamento pubblico” (anni ’80). Gli stati vengono costretti dal capitale ad interrompere le politiche inflazionistiche, si ha un forte aumento della disoccupazione (governi Reagan e Thatcher). Gli stati, quindi, per calmierare le frizioni capitale lavoro si vedono costretti a ricorre allo strumento del debito pubblico per accrescere le spese in aiuti sociali non più garantite dalla precedente soluzione inflazionistica. Inoltre, però, lo strumento dell’indebitamento consente agli stati di recuperare risorse non ancora disponibili volte a finanziare, attraverso il mercato dei titoli, il capitalismo stesso che perdura nella crisi continuamente rinviata. Il debito pubblico non è solo acquistato dai cittadini, ma dagli operatori finanziari che, negli anni anni ’90, esigono le remunerazioni dovute e da questo momento si apre una fase, perdurante ancora oggi, in cui gli stati sono eterodiretti dai mercati finanziari (attraverso il rafforzamento di agenzie monetarie internazionali come FMI, OMC, Banca mondiale). Non si tratta semplicemente di neoliberismo, ma della creazione di un sistema in cui lo stato entra nella finanza stessa. In questa fase il sostegno della domanda aggregata viene generata da un continuo incremento del debito privato che sussume direttamente il lavoro, il risparmio da lavoro e il debito pubblico, grazie ai processi finanziari globali (8) (questa fase è quella che nella teorizzazione marxiana viene individuata con la formula D-D’) . Il sistema di soluzioni non regge e la crisi si manifesta nuovamente nel 2008.

Attualmente si potrebbe avanzare l’ipotesi che sia in atto un movimento di “definanziarizzazione”(9), che contrariamente a quanto il termine potrebbe suggerire circa un ritorno all’economia reale, indica piuttosto il punto di intervento delle politiche capitalistiche per attrezzarsi ad una risegmentazione dei mercati da un lato, e dall’altro, ridurre la bolla creata dalla speculazione finanziaria introducendo valore reale che si traduce in perdita di posti di lavoro e perdita del welfare.

Tale nuovo processo non produce un’omogeneità globalizzata e deterritorializzata, ma si configura nella formazione di nuovi blocchi, barriere, nuove frontiere, nuove forme di protezionismo tra grandi aree, costituite anche attraverso nuove generazioni di trattati per la creazione di aree di libero scambio, come il TTIP, TPP, TISA, ecc. Emergono nuove aggregazioni geopolitiche (per es. BRICS) e un nuovo ciclo egemonico si sta affacciando nella scena mondiale, senza che ciò comporti necessariamente una coincidenza tra crescita economica e potenza politica.
In questo quadro generale si inserisce l’Euro, come strumento di controllo sempre più stretto sulle politiche di bilancio nazionali, sia nella fase di finanziarizzazione (indebolimento delle monete nazionali e concorrenza monetaria con il dollaro), che in quella attuale di definanziarizzazione. La logica della debitocrazia perdura anche con le recenti riforme e la manovra della BCE definita “Quantitative easing”, volute da Mario Draghi (QE – “Quantitative easing”, ovvero l’acquisto dei titoli di stato, di fatto detenuti dagli istituti di credito privati, da parte della BCE. Azione che serve, ancora una volta, a salvare le banche private garantendole nella loro esposizione in titoli pubblici. L’iniezione monetaria sarà garantita dalle banche centrali dei singoli stati, ossia dagli stati stessi, cioè dai soldi pubblici)(10).
Gli elementi di segmentarizzazione dei mercati sono presenti all’interno della stessa UE, con processi di concentrazione di capitale in alcune aree (Germania e nord Europa, paesi “core”) e anche attraverso l’attuazione di politiche di deflazione salariale e di chiara marca monetarista volte al rigore di bilancio, al severo controllo della stabilità dei prezzi, “austerity”, ecc. L’effetto è quello di determinare, al contrario, delle aree sempre più impoverite (mezzogiornificazione europea (11)) come nei paesi mediterranei (PIGS).

Va sottolineato, infine, lo stretto legame tra l’Euro e l’ordinamento giuridico europeo (diritto primario – i trattati – e diritto derivato – regolamenti, direttive, comunicazioni ecc.) a cui sono stati attribuiti un primato e un’autonomia sul diritto interno nazionale, grazie soprattutto all’attività interpretativa della Corte di Giustizia dell’UE (già a partire dagli anni Sessanta con le sentenze “Van Geend en Loos”, “Costa v Enel” ecc.). Anche con le ultime sentenze della Corte (caso “Pringle” e la sentenza sulle operazioni OMT – Outright Monetary Transactions (12)) si intende confermare questo approccio, puntando a conferire una sorta di “legittimazione” di tipo post-costituzionale a tutte quelle disposizioni atipiche e non convenzionali (come il MES, il Fiscal compact, ecc.), concepiti inizialmente in sede intergovernativa (frutto delle negoziazioni asimmetriche tra i governi, a netto vantaggio tedesco) e che ora si vogliono far rientrare a pieno titolo nel sistema generale di governance, cercando, ex-post, di legittimare la BCE nell’applicazione delle politiche monetariste.

Sintesi e proposta politica
Il quadro capitalistico sopra delineato, obbliga a prendere in considerazione le sue ricadute in ambito europeo, considerando l’unione monetaria, cioè l’Euro, come punta più avanzata del capitalismo europeo, inteso come espressione non solo economica. Essendo dunque l’euro anche uno strumento di governo e intrinsecamente politico, non relegabile alla mera sfera economica, diviene prioritario assumere una posizione definita considerandolo come l’elemento centrale, insieme ai trattati, della battaglia politica. L’euro, quindi, non è disgiungibile dall’intero impianto di governance e quindi dai trattati fondativi dell’UE.

“Rottura con l’Euro”.

Non si tratta semplicemente di esercitarsi nella continua evocazione degli scenari “posteuro” possibili, va innanzitutto ricordato che sia nel caso dell’uscita (unilaterale o coordinata che sia), sia nell’ipotesi della permanenza nell’Unione, sempre di “lacrime e sangue” si tratta. Non ci sono quindi soluzioni tranquillizzanti o magicamente risolutive. Però, assumere la battaglia politica della rottura con l’Euro, rappresenta un punto di precipitazione in grado di sviluppare una consapevolezza su cosa sia l’impianto europeo, determinare, a diverse intensità, cambiamenti nei rapporti di forza e, quindi, aprire le necessarie contraddizioni per il suo superamento.
Questo ragionamento non può essere disgiunto da una riflessione sulle battaglie immediate già in corso che obbligano ad una presa di posizione. Ad esempio la questione del referendum 5 stelle. Un conto è non volersi mettere a traino di proposte già esistenti, un altro è, nel caso il referendum dovesse passare, non entrare nella campagna per un’ipotesi di uscita. Oggi le posizioni sono sostanzialmente due: a) quella della sinistra no euro, cioè “siamo consapevoli dei pericoli e dell’ineffettuabilità di un referendum sull’euro, ma lo appoggiamo come mezzo per far crescere il fronte eurocritico” b) quella di Syriza- Rifondazione (la lista Tsipras italiana nel suo insieme è più moderata) “non potendo decidere sull’euro facciamo campagne per altre lotte radicali (tipo non pagamento del debito, annullamento della legge di stabilità ecc.) che di fatto entrano in contraddizione con l’assetto monetario della UE”.

Posizioni come quella del “superamento cooperativo” non hanno nessun senso, in quanto private del necessario elemento conflittuale e di forzatura dei trattati stessi e presupponendo un’irreale simultaneità nell’azione di superamento. È inevitabile porsi la domanda di come qualificare il termine “rottura con l’Euro”. Esso ha una valenza se viene inteso come un “campo strategico” e come “leva contingente”unitamente del rovesciamento del sistema dei trattati. I due ambiti non possono essere disgiunti. Questa leva si deve articolare su un piano che non sia subordinato necessariamente a soluzioni e scenari aprioristicamente precostituiti (ritorno alla monete nazionali, introduzione della moneta comune, uscita coordinata, ecc.), ma che abbia la capacità di inserirsi in ogni contesto di rottura contingente in grado di aprire una crepa, anche se apparentemente possa sembrare un elemento di “ritorno”, di arretramento ecc.

5. Geopolitica e imperialismo

Situazione.
L’Unione Europea si potrebbe definire come un “imperialismo multilivello”. L’UE, infatti, non è un imperialismo compatto, ma risente delle dimensioni nazionali. Ha la capacità di mantenere un rapporto contraddittorio tra la dimensione UE-NATO e le politiche imperialiste egemoniche nazionali, in alcuni casi in contrasto con l’indirizzo UE-NATO. Vedi i mal di pancia della Germania sulla questione Ucraina – in altri come subimperialismo di area – vedi l’egemonia francese sulla questione africana – ma siamo ancora lontani da una definizione coerente. Non si può ritenere, come molti danno già per scontato, che l’imperialismo USA sia morente, anzi occorre considerare che a livello globale l’UE costituisce un supporto alle azioni militari a stelle e strisce, soprattutto in riferimento al processo di globalizzazione della NATO e del suo allargamento ad Est e Sud-Est e alle politiche di allargamento della stessa UE ai paesi dell’Europa orientale. Tutto questo contestualizzato nelle tendenze deglobalizzanti e di risegmentazione geopolitica che accompagna quella economica. Inoltre, la questione è complicata dal fatto che nessun progetto geopolitico oggi spendibile contro l’asse USA-UE, come ad esempio quello euroasiatico (usiamo il termine in senso neutro, a prescindere dalla sua declinazione di “destra”) può essere di per sé sinonimo di un progetto di maggiore eguaglianza sociale. Molti si illudono di fare coincidere piani che oggi sono distinti, ma sono entrambi essenziali. Da un lato, infatti, se il problema di una politica di emancipazione è quello di “dare potere a chi non ne ha”, quello geopolitico è di “togliere potere a chi ne ha troppo” . Non è detto che una cosa si traduca nell’altra. D’altra parte è certo che qualsiasi sperimentazione “egualitaria” – nazionale o regionale – avrebbe bisogno di un quadro internazionale tendenzialmente multipolare per sussistere.

Non va dimenticato che i conflitti che possono apparire circoscritti e meramente regionali, sono in realtà sintomo del riposizionamento delle potenze su scala globale: per esempio il conflitto in Ucraina e nel Donbass è in realtà una guerra degli USA alla Cina per interposta Russia. Questo segna l’emergere di forze neofasciste e neonaziste, utilizzate dalla forze imperialiste che sguazzano e fomentano le contraddizioni nazionali.

Sintesi e proposta politica.
Cruciale in questa dinamica è porre con forza l’esigenza di uscire dal patto atlantico sia come nazione, sia come Europa, considerando nuove strategie di alleanze che guardino al bacino mediterraneo e all’Asia.

“Fuori l’Italia e l’Europa dalla NATO, fuori la NATO dall’Italia e dall’Europa”.

Inoltre, si devono appoggiare tutte quelle lotte che rappresentano l’opposizione a questa logica imperialista, come per esempio: la resistenza nel Donbassla resistenza palestinese, ecc.
In questa fase occorre opporsi anche ai trattati di tipo commerciale, vedi TTIP, perché se pur contestualizzati economicamente e politicamente nella logica ordoliberale e funzionalista, sono portatori di aspetti imperialistici USA e che non fanno altro che accentuare l’aspetto neoliberista dalla UE a discapito delle fasce sociali più deboli (lavoratori, precari, migranti, ecc.). “STOP TTIP”.

NOTE

1) I primi progetti di cooperazione fra gli stati europei risalgono, infatti, al piano Marshall per la gestione dei fondi (ERP) degli USA, destinati all’Europa, l’OECE (Organizzazione per la gestione della ricostruzione economica degli stati europei), il Congresso dell’Aja (1948) da cui nacque il Consiglio d’Europa, l’organizzazione internazionale per la tutela dei diritti umani, ecc.

2) Scuola economica di Friburgo, nata attorno alla rivista “Ordo”, i cui esponenti di spicco sono Walter Eucken, Wilhelm Roepke, Ludwig Erhard.

3) Cfr. David Mitrany, A Working peace system (1943).

4) L’equilibrio tra gli stati europei che si è retto, con alterne vicende, conflitti e guerre dal 1648 (pace di Westfalia) fino alla seconda guerra mondiale.

5 La CECA (La Comunità europea del carbone e dell’acciaio) seguì esattamente questo indirizzo funzionalista: condividere funzioni (la gestione del carbone dell’acciaio), prima di condividere sovranità.

6) Si vedano le posizioni di Etienne Balibar e Toni Negri.

7) Wolfang Streeck – Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico.

8) Cfr. Nozione di keynesismo privatizzato di Riccardo Bellofiore.

9) Cfr. Nozione di definanziarizzazione presa da Piero Pagliani.

10) Cfr. Leonardo Mazzei, Te lo do io il quantitative easing, (www. sinistrainrete.info). Sergio Cesaratto, Il bluff di Draghi sul quantitative nothing, Il Manifesto, 13 gennaio 2015.

11) Paul Krugman

12) L’OMT prevede che la BCE possa acquistare titoli di un Paese in crisi, solo una volta che questo abbia concordato un piano di aiuti e un programma economico con le autorità europee e quindi solo dopo che si impegni ad attuare le cosiddette “riforme strutturali”, ovvero tagli al welfare, politiche di compressione salariale e flessibilizzazione del mercato del lavoro.

DOCUMENTO POLITICO DI ROSS@ APPROVATO ALL’ASSEMBLEA NAZIONALE DEGLI ISCRITTI

Bologna 5 Ottobre 2014

1. INTRODUZIONE

1.1 L’esperienza del Comitato No Debito. La decisione di svolgere l’assemblea nazionale degli iscritti di Ross@ il prossimo 5 Ottobre non nasce da una decisone presa a tavolino o da una necessità tattica ma da un percorso che sta maturando dal 2011 con la formazione del “Comitato No Debito”, con la promozione delle sue iniziative e, soprattutto, in rapporto alle evoluzioni del quadro politico generale a partire dalle vicende e dal ruolo assunto dalla Unione Europea. E’ necessario ricostruire questo “filo rosso” perché mette in evidenza la dinamica di mobilitazione che si è sviluppata in questi anni, la relazione tra questa e le vicende politiche generali, della sinistra e del movimento e per superare una abituale visione legata alla contingenza, alle necessità del momento, alle tattiche per tentare di ricostruire una visione organica e di lungo periodo.
Il contesto in cui nasce il “Comitato No Debito” è di carattere continentale ed è quello dei cosiddetti debiti sovrani. Il “capro espiatorio” per eccellenza di quella fase è stata la Grecia messa praticamente in ginocchio dalle politiche della Unione Europea che, nella crisi finanziaria internazionale apertasi nel 2007, stava andando ad un feroce processo di riorganizzazione interna. Processo che è ancora in atto ed in cui i paesi PIIGS dovevano essere le vittime predestinate. Tant’è che nel mese di Agosto del 2011 Trichet e Draghi inviarono una lettera all’allora governo Berlusconi comunicando il diktat della Unione Europea sull’austerità anche verso l’Italia. Lettera che avrebbe preparato le dimissioni di Berlusconi e la nomina di Monti quale nuovo presidente del consiglio, caldamente sostenuto dal presidente della repubblica Napolitano.
La necessità di una risposta di massa si imponeva obiettivamente e già dal mese di Luglio erano iniziati una serie di contatti sulla proposta di costituzione del “Comitato No Debito” che avrebbero portato al 1° Ottobre di quell’anno alla grande assemblea tenuta al teatro Ambra Jovinelli che avrebbe poi dato vita alle mobilitazioni successive. Mobilitazioni che, nonostante i molti limiti materiali, finanziari ed organizzativi, hanno segnato tutto il 2012 e sono state le uniche di carattere generale a tenere la piazza in quella fase. Dalla partecipazione alla manifestazione del 15 Ottobre, non andata esattamente secondo le aspettative, alle assemblee nazionali ed ai momenti seminariali di approfondimento, dalle numerosissime iniziative territoriali sulle politiche di austerità alle riuscite manifestazioni alla borsa di Milano il 17 marzo e del No Monti Day del 27 Ottobre a Roma.
Se sul piano nazionale quelle sono state le uniche manifestazioni di massa dell’opposizione al governo Monti, va ricordata una forte attività territoriale che ha coinvolto molte situazioni come le città di Milano, Bologna, Roma, Napoli, la Toscana, il Veneto. La Liguria, Parma sulle tematiche relative alle politiche di austerità attuate nella sanità, nei trasporti, nelle scuole etc.
Quella esperienza è stata promossa da molte strutture politiche (c’era il PRC ma anche Sinistra Critica, il PCL, la Rete dei Comunisti, i CARC ed altri ancora) e di carattere sindacale e sociale (USB, la Rete 28 Aprile, i movimenti per la casa, etc.). Questo carattere “plurale” quando è emersa la necessità di andare verso una unità più stretta ed ad una fase di stabilizzazione ha prodotto, appunto, una pluralità di posizioni che hanno impedito un ulteriore passo in avanti che portasse ad un processo non di unificazione meccanicistica, cosa evidentemente impossibile, ma ad un “cartello” più omogeneo e stabile nel suo programma ed iniziativa.
Questa contraddizione interna ha portato all’inizio del 2013 al superamento del “Comitato No Debito” ed alla necessità da parte di alcune componenti dei promotori di individuare un ulteriore passaggio nella definizione di obiettivi, programmi e strutture che poi ha condotto alla decisione di dare vita a Ross@.

1.2 La nascita di Ross@. Decisione che non era affatto scontata, infatti è stata presa nel periodo in cui si sono svolte le elezioni politiche del 2013 e queste hanno interferito nel dibattito attraverso la “lista Ingroia” che sembrava fosse un momento di ripresa dei partiti della cosiddetta sinistra radicale. La riconferma della esternità di questa alla dimensione istituzionale ha poi rafforzato la decisione di procedere sulla strada intrapresa con l’assemblea di Bologna del maggio 2013 che ha rappresentato una proposta politica anche se ancora tutta da strutturare e formalizzare. Il documento finale dell’assemblea di Bologna per la prima volta ha esplicitamente preso posizione sulla rottura dell’ Unione Europea come primo punto di una piattaforma articolata che poneva anche la questione del sindacalismo conflittuale ed anche quella della rappresentanza dei settori sociali come obiettivo comune. Documento quello votato all’epoca sia dai militanti del PRC interni a Ross@ sia da Sinistra Anticapitalista, nel frattempo nata dopo la conclusione di Sinistra Critica.
Proprio su questo terreno Ross@ ha contribuito nell’autunno ad organizzare le mobilitazioni del 18 e 19 Ottobre, indette anche dal sindacalismo conflittuale e dai movimenti sociali, che si sono rivelate come momenti di rappresentanza di un fronte politico sociale ampio che avrebbe potuto avviare un importante processo unitario. Lo si è visto dalle reazioni isteriche avute dalla stampa e dalla frustrazione prodotta alle forze politiche di governo in quanto in quell’occasione è stata politicamente resa impossibile la repressione e la ripetizione dei fatti del 15 Ottobre. In quelle giornate si è contribuito ad organizzare le ‘accampate’ come forme democratiche di rappresentanza che si propongano di rompere ‘la ferrea legge dell’oligarchia’ e, al contempo, sappiano inventare nuove forme di organizzazione dotate di capacità e forza nella contrattazione sindacale e sociale.
Inoltre La piattaforma dello sciopero del 18 ottobre del sindacalismo conflittuale richiamava gli obiettivi della migliore cultura ambientalista: per mettere in sicurezza territorio ‘devastato da decenni di speculazione e abusivismo’ le scuole e il patrimonio pubblico; per realizzare il rimboschimento, tutelare e ampliare i terreni agricoli, e riqualificare la filiera agroalimentare; per requisire le case sfitte in modo da garantire il diritto all’abitare; per tutelare il patrimonio artistico. Anche l’indicazione, contenuta nella piattaforma del 18 ottobre, della rottura dell’UE è l’espressione della presa d’atto che non si è più di fronte a un ‘deficit democratico’ delle istituzioni dell’UE, bensì in presenza di un’oligarchia, strumento del dominio delle imprese, delle banche e della finanza.
Purtroppo su questo terreno i progressi unitari sono stati bloccati dagli abituali comportamenti egemonici presenti nelle aree di movimento, mentre si andava delineando un’altra scadenza elettorale che avrebbe inciso sulla formazione di Ross@. Questo secondo problema ha cominciato a manifestarsi nell’assemblea del 17 dicembre dove gli ostacoli alla stabilizzazione di Ross@ ed ad un sua più distinta identità emergevano con chiarezza sulla questione dell’Unione Europea rispetto alla quale nascevano ripensamenti rispetto all’obiettivo definito nell’assemblea dell’11 maggio sulla “rottura dell’Unione Europea”. Contraddizione questa che si è trascinata fino al passaggio elettorale sulle elezioni di maggio 2014, dove la divaricazione è divenuta separazione politica, con gli aderenti al PRC e con SA, dopo il risultato di misura avuto dalla “lista Tsipras”.
Sul fronte del movimento, ormai sganciatosi dall’esperienza unitaria del 18 e 19 Ottobre, le cose non sono andate meglio e la manifestazione del 12 Aprile con le cariche e gli arresti conseguenti hanno bruciato un capitale politico rilevante e dato il via libera alla repressione, che oggi si sta ripercuotendo su una serie di esperienze legate agli spazi sociali occupati.
Anche movimenti importanti come quelli ambientali e delle donne, in questi anni hanno posto al centro dell’agenda questioni e conflitti che sono venuti assumendo una importanza crescente nella contraddizione tra capitale e lavoro. La finitezza del pianeta, delle sue risorse e della sua capacità di riproduzione, si configura sempre più come un limite del capitalismo stesso. L’infarto ecologico del pianeta segna un punto di rottura che però trascina con sé non solo il fallimento di un modello ma di tutta l’umanità. Le lotte ambientali in alcuni territori hanno provato a segnalare – sia sul piano globale che locale – la visione lunga e le conseguenze di questa contraddizione, ma c’è ancora molto da lavorare per definire una ricomposizione generale e una visione comune. I movimenti delle donne, ai quali si sono ormai affiancati e sommati movimenti più ampi di rivendicazione della libera scelta della sessualità, hanno dovuto fare i conti con il depotenziamento sul piano del conflitto messo in campo dall’egemonia ideologica liberale, che da sempre ha la pretesa di avere già in sè i diritti civili individuali, anche quando nega i diritti come conquista collettiva e trasformatrice del sistema.

1.3 Ross@ in controtendenza, verso una nuova tappa. Questa tendenza latente alla disgregazione, manifestatasi nell’ultimo anno, va in qualche modo spiegata e razionalizzata e questo può essere certamente fatto a partire da una valutazione sui nostri settori sociali di riferimento anch’essi in condizione di debolezza e di disgregazione. Ma ci sono anche le responsabilità soggettive legate ad una mancanza di reale indipendenza dal quadro politico istituzionale e dalla ideologia predominante. In questo senso va vista la difficoltà di tutta la sinistra, da quella politica a quella di movimento, di esprimere la propria estraneità al progetto reazionario di costruzione della Unione Europea e la subordinazione che viene data alle prospettive politiche rispetto alla contingenza tattica che si manifesta dando ai passaggi elettorali quella centralità che in modo evidente è stata esiziale per la sinistra in Italia negli ultimi venti anni.
In questo contesto di difficoltà la scelta di Ross@ di mantenere la chiarezza politica sulla questione della Unione Europea e di continuare nella sua funzione generale è stata confermata con l’iniziativa della raccolta nazionale di firme, tenuta tra Aprile e Maggio, per un referendum sui trattati europei, con la proposta del controsemestre e dalla manifestazione del 28 Giugno dove, nonostante che i numeri non siano stati paragonabili alle giornate di Ottobre, si è riconfermato appieno l’obiettivo della rottura della UE. Inoltre è stato possibile vedere una partecipazione di lavoratori e settori sociali che possono essere il nucleo di una rappresentanza politica del blocco sociale tutta da costruire ma che ormai sta nel DNA attuale di Ross@
Siamo dentro un processo di costruzione complicato ma che va visto in modo organico rispetto alle sue evoluzioni e dunque ora dobbiamo definire con più chiarezza possibile il passaggio che dobbiamo effettuare. Indubbiamente va continuato il lavoro per meglio definire gli obiettivi generali che ci diamo, sviluppando al massimo il confronto interno ed esterno, l’approfondimento di merito e le iniziative politiche e di lotta nel modo più unitario possibile nell’ambito che ha deciso di rompere effettivamente con la “catena di sant’Antonio” del PD. A questo però ora va aggiunto un altro “pezzo” che è quello della stabilizzazione e formalizzazione che vedrà nell’appuntamento del 5 Ottobre un punto fermo nella costruzione del Movimento Politico di Ross@.

2. DALLA FINE DEL WASHINGTON CONSENSUS ALLA COMPETIZIONE GLOBALE

2.1. Lo scenario e i fattori che avevano portato al compimento della globalizzazione economica capitalista alla fine del XX Secolo, hanno subito delle brusche controtendenze nell’ultimo quindicennio lasciando il campo a quella che sempre più di configura come una competizione globale. Nella fase precedente, anche attraverso organismi sovranazionali come Wto, Fmi, Banca Mondiale e la stessa Nato, era sempre stato decisivo il Washington Consensus. Anche adesso gli Stati Uniti cercano con ogni mezzo di agire ancora come primus inter pares ma le tendenze messesi in moto insidiano pesantemente questa posizione egemonica.

2.2. Una prima rottura degli equilibri strategici e delle relazioni economiche internazionali basate sul Washington Consensus è venuta sul piano monetario con l’entrata in vigore dell’euro nel 2000/2002. Già il vertice della Wto di Seattle del 1999 (emblematico anche come atto di nascita dei movimenti altermondialisti) aveva rivelato la crisi di questa “camera di compensazione” tra gli interessi dei costituenti poli geoeconomici divaricanti tra loro. Oggi la Wto è diventata praticamente una scatola vuota. Lo stesso Fmi, bestia nera dei programmi di aggiustamento strutturale che avevano devastato tutti i paesi in via di sviluppo in America Latina, Africa, Asia e i paesi dell’Europa dell’Est, è venuto perdendo la sua funzione, recuperandola parzialmente e paradossalmente proprio dentro la Troika europea. Infine anche la Nato, che pure aveva celebrato i suoi quaranta anni proprio con i bombardamenti sulla Serbia nel 199, aveva cessato di essere il luogo dove venivano definite e messe in campo le scelte militari delle potenze occidentali. Emblematica la crisi interna sul conflitto in Georgia nel 2008 quando i partner europei rifiutarono agli Usa di intervenire contro la Russia. Anche il recente vertice della Nato in Galles, una volta analizzato nel merito delle decisioni prese, ha mostrato secondo moltissimi osservatori una crisi delle relazioni interne e del peso statunitense molto più forte di quanto abbiano lasciato apparire i comunicati ufficiali (ben 113 punti, troppi secondo gli esperti, per indicare una convergenza di obiettivi tra i partner della Nato).

2.3. La moneta europea, per quanto ancora sottoutilizzata nelle transazioni economiche internazionali, è diventata ben presto una moneta forte, ben presente nelle riserve dei vari Stati e fattore unificante di un polo economico e geopolitico come l’Unione Europea. La Bce e l’eurozona, ad esempio, hanno funzionato come fattore respingente del tentativo degli Stati Uniti di scaricare – come in passato – i costi della loro inflazione interna (cresciuta con i ripetuti quantitative easing della Fed) sull’Europa. Le feroci critiche dell’amministrazione Usa al “rigore” europeo denunciavano in realtà il fatto che il “giochetto” usato in passato … questa volta non ha potuto funzionare.

2.4. Mentre l’Unione Europea dal 1992 definitiva la sua marcia, anche nelle aree del mondo si erano messi in moto processi tesi a costituire aree o poli economici sovranazionali ben più estesi dei singoli Stati. Gli Usa avevano realizzato il Nafta nel 1994 ed avevano cercare di imporre l’Afta all’intera America Latina. L’opposizione dei popoli e poi dei governi latinoamericani, ha impedito questa operazione realizzando altre e diverse aggregazioni su base regionale: dal Mercosur all’Alba. Quest’ultima ha messo insieme i paesi progressisti dell’America Latina e livelli di integrazione che hanno portato ad una “moneta” comune – il Sucre – che agisce come unità di cambio completamente sganciata dal dollaro nelle relazioni commerciali tra i paesi aderenti e ad una propria banca: La Banca del Sur, sganciata dal Fmi e dalla Bm.
Lo stesso processo è accaduto in tempi più recenti in Asia ad esempio con il Trattato di Shangai (nato come accordo di cooperazione nel 1996 e diventato trattato nel 2001) che vede come aderenti Cina, Russia, Kazachistan, Uzbekistan, Tagikistan, Kirghisistan. Più recentemente – nel 2013 – sono stati ammessi come osservatori anche Iran, Pakistan, Afghanistan, India, Mongolia .
Se la globalizzazione regolata dal Washington Consensus è palesemente in crisi, tuttavia la mondializzazione dell’economia continua sotto il segno della crescita quantitativa, nelle varie latitudini e continenti, della classe operaia, sottoposta a varie forme, spesso combinate, di sfruttamento. E’ una mondializzazione accompagnata ovunque da una esplosione delle disuguaglianze sociali, cui non si sottraggono del tutto i paesi emergenti conosciuti come Brics.

2.5. Ma se le vecchie camere di compensazione (Fmi, Wto, Bm, Nato) non funzionano più o non funzionano come prima nelle relazioni tra le maggiori potenze economiche capitaliste, come si vanno a delineare le nuove relazioni internazionali e i conseguenti rapporti di forza? Il mondo, oggi globalizzato ma non più egemonizzato dal solo Washington Consensus, tende a dividersi in aree o poli economici, monetari che agiscono sia in concertazione che in competizione tra loro. Il problema è la “finitezza” delle risorse (a cominciare da quelle energetiche ma non solo) e le enormi difficoltà di valorizzazione del capitale che la crisi sta rivelando. La stessa finanziarizzazione sta dimostrando tutti i suoi limiti. Ed è per ovviare a questi che è stata scatenata un’offensiva micidiale che punta alla valorizzazione del capitale attraverso il saccheggio sistematico dei sistemi di welfare e dei salari. Non è escluso che già si vadano accumulando altre bolle speculative che possono esplodere con effetti pesanti sulle relazioni economiche mondiali e in modo particolare tra Stati Uniti ed Unione Europea. Relazioni che indicano come sempre più le relazioni internazionali di questo XXI secolo si vadano conformano intorno a poli o aree monetarie, economiche e commerciali in competizione tra loro.

2.6.I primi fattori che oggi pesano come macigni sono proprio la non risoluzione della crisi economica negli Stati Uniti e nell’Unione Europea e i crescenti segnali di guerra intorno all’Europa: alla sua frontiere dell’Est e del Sud.
Stati Uniti ed Unione Europea hanno in comune la crisi ripresentatasi con forza nel 2007/2008 dopo quella irrisolta degli anni Settanta e quella statunitense del 2001 con la bolla della net economy. Le due maggiori aree del capitalismo avanzato sono alle prese con una crisi rispetta alla quale i rimedi messi in campo dalla cassetta degli attrezzi del capitalismo (sia nelle versione liberista che keynesiana) non sembrano funzionare. Ma questa crisi si presenta in modo asimmetrico: colpisce i due maggiori poli capitalisti ma non – o in misura minore – le economie emergenti dei paesi Brics. C’è dunque uno sviluppo disuguale dentro a paesi ed aree integrate che, in modo diverso, applicano la stessa logica capitalista, dunque tra “i capitalismi”.
Gli Usa ipotizzano che una soluzione potrebbe essere quella di integrare fra loro i “capitalismi simili attraverso nuovi trattati di libero scambio con l’Unione Europea (TTIP) e con l’Asia (TPP). Dunque una aggregazione ancora maggiore per competere con e contro i Brics. Ma questo presuppone che le contraddizioni e la competizione all’interno delle relazioni tra Unione Europea e Stati Uniti trovino delle soluzioni adeguate. Queste non possono che sancire la fine del Washington Consensus e una riduzione del peso decisionale degli Stati Uniti nella partnership. Una presa d’atto che buona parte dell’establishment statunitense – sia conservatore che democratico – vede come fumo agli occhi.
Il tentativo dei neocons statunitensi di evitare tale scenario scatenando in questi anni guerre asimmetriche e sistematica destabilizzazione in Afghanistan, Iraq, Nordafrica, Medio oriente, ovvero nel “cortile di casa” dei partner europei, è stata la dimostrazione pratica del terrore statunitense di perdere la leadership mondiale. Oggi questo gioco pericoloso è diventato evidente con le tensioni e il conflitto animati con la Russia sull’Ucraina e con il perseguimento dell’instabilità in Medio Oriente e Nordafrica dove ormai si è arrivati all’impero del caos. Governare questo caos con i bombardamenti dei droni e dei missili dall’alto o qualche blitz, offre però pochissime garanzie di riuscita. Il crescente sviluppo disuguale tra le varie aree e poli capitalisti e l’innalzamento della soglia nei conflitti militari, sta alimentando una tendenza alla guerra che va colta, denunciata e contrastata nella sua gravità evitando ogni tifoseria sui soggetti in campo.

2.7. Agire per la rottura dell’Unione Europea e per l’uscita e lo scioglimento della Nato significa proprio questo: indebolire il “nostro” imperialismo per impedirgli di prendere parte alle guerre o alle devastazioni contro altri popoli e paesi. Ciò significa contrastare il polo imperialista europeo (un polo appunto e non ancora uno Stato) sia quando agisce in concerto con gli altri (vedi l’alleanza con gli Usa nella Nato), sia quando agisce in proprio attraverso gli interventi militari dei singoli governi europei (vedi la Francia in Libia o in Africa). Neutralità militare e internazionalismo sono due elementi decisivi di un opzione anticapitalista. Possiamo dunque affermare che le mobilitazioni contro la Wto, il Fmi e la Nato sono state o sono un falso bersaglio? No, ma sicuramente non colgono più la dimensione assunta dai soggetti decisivi che animano la competizione globale di questo primo ventennio del XXI Secolo.
Le relazioni economiche mondiali e i conseguenti rapporti di forza, hanno subito delle modificazioni che vanno ben comprese affinchè un movimento anticapitalista come Ross@ non agisca dentro una fotografia della fase precedente ma dentro il nuovo scenario.

3. L’UNIONE EUROPEA E L’ITALIA OGGI

3.1 Riteniamo necessario lottare per rompere l’Unione Europea e costruire uno spazio europeo alternativo. Dunque dentro l’Europa ma fuori dall’Unione Europea.
Lo scuotamento delle forme e del ruolo della politica opera ormai a più livelli, agisce sul piano locale, nazionale e sovranazionale: formando un blocco storico neoliberale. Non si tratta si un semplice assalto alla sovranità degli Stati ma di una sussunzione di alcune loro parti in nuovi assetti di governance in grado di trasformare la statualità stessa. La democrazia liberale non è stata semplicemente “confiscata” negli stati membri dell’Unione Europea e trasferita e gestita a Bruxelles. Non ha senso orientare l’azione politica sulla parola d’ordine della riconquista democratica, questa non può avvenire nemmeno nel Parlamento europeo pensando di poterlo trasformare in qualcos’altro, ma nemmeno nei Parlamenti nazionali che sono parte integrante della governance. Nessuna malinconia per la liberaldemocrazia perduta, la politica va ripensata e costruita a partire da tutti i livelli.
Per fronteggiare la crisi economico-finanziaria e per competere su scala globale, l’UE è andata in questi ultimi anni sempre più rafforzando il suo sistema di governance, concentrata nel Consiglio Europeo, nella Commissione, nell’ECOFIN, nella BCE. L’UE è l’esperienza più avanzata nell’organizzazione di un grande spazio economico e gli Stati europei agiscono in funzione di questo obiettivo del mercato unico continentale.
Il nuovo sistema di governance nato per fronteggiare la crisi economico-finanziaria, si è strutturata attraverso i Regolamenti del Six Pack e del Two Pack e con accordi intergovernativi, il Patto Fiscale e il Trattato ESM, per controllare ex ante e ex post le politiche di bilancio. Si è modificato l’articolo 81 della Costituzione per sancire il pareggio di bilancio al livello più alto nella gerarchia delle fonti, e si è riformata la legge di contabilità per adeguarla alla normativa dell’UE.
Con queste misure si è dato il potere sull’intera gamma delle politiche pubbliche a un’oligarchia. Per questo si deve avere come obiettivo strategico la rottura dell’UE, essendo impossibile una sua riforma come dimostra l’impotenza verso questa oligarchia dei parlamenti sia nazionali sia europeo. È questa oligarchia a essere il ‘giudice di ultima istanza’ che detta le misure di bilancio e di politica economica, mentre la BCE regna sulla moneta. Parliamo di Unione Europea come oligarchia perché c’è un dato empirico a dimostrarlo. Le istituzioni di Bruxelles hanno 30.000 funzionari. Nei palazzi accanto a quello delle varie istituzioni europee lavorano e agiscono ben 31.000 “agenti di pressione” delle lobby che determinano le direttive della Ue.

3.2 Ciò che guida il governo tedesco nel chiedere disciplina fiscale e riforme del mercato del lavoro dei Paesi dell’Eurozona è la stabilità dell’euro necessaria per la sicurezza degli scambi e degli investimenti, mentre le riforme servono per contenere e possibilmente abbassare il costo del lavoro dei settori produttivi legati alla subfornitura dell’industria tedesca. Dunque il contenimento dei costi lungo tutta le catene produttive – Est e Sud Europa – è un elemento cruciale per mantenere bassi e concorrenziali i costi dei prodotti tedeschi che incorporano beni intermedi provenienti dall’area europea. Il sistema industriale tedesco ha avuto la capacità di utilizzare l’allargamento a Est per decentrare fasi di produzione, accompagnata dalle riforme del mercato del lavoro che hanno reso possibile flessibilità della forza lavoro, riduzione dei salari, e mini-jobs. Nelle scelte della classe dirigente tedesca sussistono elementi di egemonia, che provocano frizioni con gli altri paesi europei suscitando proteste in nome della difesa delle economie nazionali: quello della sempre più stretta integrazione delle economie dell’Eurozona è un disegno condiviso dall’insieme delle élite europee – politiche imprenditoriali e tecnocratiche.

3.3 I programmi dei governi italiani che si sono succeduti dal novembre 2011, Monti Letta Renzi, sono stati dettati da Draghi e Trichet con la loro lettera del 5 agosto 2011 e riconfermati nelle Raccomandazioni ai governi della Commissione negli anni successivi.
In Italia il ventennio che abbiamo le spalle, dominato dalle querelle berlusconismo – antiberlusconismo, ha visto una progressiva mutazione genetica tanto della vecchia sinistra moderata quanto della Cgil e, nel contempo, ha registrato la scomparsa della “sinistra radicale”. Si è viceversa rafforzata la presenza del sindacato di base e conflittuale. Ne è conseguita una perdurante regressione della coscienza pubblica connotata dall’affermazione di uno spirito individualista “competitivo” anche tra gli stati subalterni, Il “caso italiano” degli anni ’60 e ’70 (senso dell’agire collettivo, soggettività conflittuale e progettuale, politicità diffusa) si è rovesciato ed è precipitato nello stagno dell’antipolitica (la lotta alla “casta”), terreno di coltura dei concorrenti populismi “dell’uomo solo al comando”: Berlusconi, Grillo e Renzi. La rappresentazione, l’immaginazione abilmente manipolata, la fiction, hanno sostituito nelle coscienze la percezione della realtà fattuale. Il nostro faticoso lavoro, oggi, sta nel “decriptare qel mondo di segni che avvolgono nella loro pregnanza il mondo reale con una prepotenza che esclude ogni possibilità di scelta”. La pratica di movimento deve attraversare questa “terra di nessuno” per restituire agli sfruttati e ai dominati una coscienza di classe. Ricordiamoci che il voto operaio, in Italia come in Francia, non va alle forze si sinistra.
Oggi Renzi con il Jobs Act si accinge, dopo aver manomesso i contratti a tempo determinato, a cancellare lo Statuto dei diritti dei lavoratori compreso l’articolo 18, per imporre una generalizzata flessibilità dell’uso della forza lavoro. E con la spending review, oltre a bloccare ancora una volta i contratti del pubblico impiego, si procede ancora con i tagli lineari alla spesa pubblica per recuperare 32 miliardi entro il 2016, con le dismissioni di quote azionarie pubbliche in SNAM, ENI, Terna, Fincantieri, STM, SACE e successivamente Poste e Ferrovie; dopo che con la rivalutazione delle quote della Banca d’Italia si è fatto un altro regalo alle banche. Renzi con una mano dà 80 euro a settori del lavoro dipendente, con l’altra toglie servizi ai cittadini che devono, se possono, ricorrere al mercato per usufruirne.
Sussistono una continuità e un’omogeneità politiche tra centrodestra e centrosinistra, plasticamente dimostratasi con i governi che si sono succeduti dal novembre 2011 sostenuti da forze e partiti delle due aree politiche, che hanno sostenuto le politiche dell’UE. L’omogeneità politica, che si è venuta creando in Italia, affonda le sue radici nel terreno dell’UE dove si definiscono le politiche pubbliche degli Stati membri.
Questa omogeneità politica non si limita alla sola politica economica, con l’affermata primazia dei mercati; essa si estende fino alla cultura istituzionale. Accettato dal PD e dal centrodestra come un fatto ‘naturale’ lo svuotamento della stessa democrazia rappresentativa, con l’avvento di Renzi si va realizzando, anche interventi di modifica della Carta costituzionale, l’instaurazione del ‘premierato assoluto’, una variante del regime del primo ministro, in cui confluiscono tendenze di lungo periodo: la personalizzazione della politica, la democrazia immediata e, attraverso la videocrazia, il rapporto diretto tra premier ed elettori.
Strumento dell’instaurazione della supremazia del premier è il governo, non più legato alla fiducia del parlamento ma legittimato dalla sola ‘sanzione elettorale’ e dalla subalternità al “pilota automatico” degli apparati europei. Renzi non è stato eletto ma la sua vittoria alle elezioni europee funge da succedaneo: ‘io rappresento il 41% degli elettori e i sondaggi confermano la mia legittimità’. L’Italia è giunta alla ‘democrazia di investitura’: le elezioni non servono più a esprimere la rappresentanza parlamentare, ma ad investire il premier. Per questo si vuole introdurre, con l’accordo di Berlusconi, uno stabile sistema maggioritario con una legge elettorale sia con premio di maggioranza sia con alte soglie di sbarramento. Le elezioni servono a eleggere il governo non più i propri rappresentanti.
Così con la cancellazione del Senato, la garanzia del voto sulle leggi del governo, e il sistema maggioritario si cambia forma di governo e forma di Stato: il governo non ha più bisogno della fiducia del Parlamento, i cittadini hanno un rapporto virtualmente diretto con il premier, che interpreta la volontà della Nazione. Il premier è il popolo, così si potrebbe parafrasare la celebre espressione di Hobbes: il re è il popolo.
Dopo la rivoluzione passiva dell’era Berlusconi, ora siamo dinnanzi al sovvertimento dall’alto della società portato avanti dal governo Renzi. Un sovvertimento della società, non solo una trasformazione autoritaria delle istituzioni. Questo è ciò che devono fronteggiare forze politiche alternative, i movimenti, e i sindacati. E il presupposto necessario di questa lotta è la rottura con il sistema di potere PD, che ha nelle Regioni e negli enti locali il suo fondamento e la sua forza propulsiva. Allearsi con il PD a livello territoriale è sostenere questa base di potere, peraltro profondamente corrotta per l’affarismo e il dispendio del pubblico denaro.

3.4 La costruzione di una democrazia, in cui nessuno si possa arrogare la sovranità, che appartiene solo al popolo, è un compito primario. Essa deve coinvolgere tutti i livelli dell’organizzazione sociale e istituzionale: una democrazia multilivello in cui si intreccino rappresentanza e partecipazione diretta, in cui tutte le questioni culturali, sociali, economiche, istituzionali siano dibattute e decise da tutti/e, alla cui base deve esserci la garanzia dei diritti universali della persona.
La persona sessuata è il punto di vista che i movimenti femministi hanno elaborato per rivendicare il valore della differenza: diversi/e nella propria individualità e uguali come persone. Questa visione è il fondamento della critica del patriarcato e delle forme di oppressione che la modernizzazione capitalistica non ha mai superato anzi continuamente riproduce.
Ciò comporta di stabilire il primato dei valori costituzionali al di sopra della ‘politica’, e di sottoporre continuamente le scelte dei rappresentanti politici a controllo e correzione. I rappresentanti non sono il popolo: è pura retorica fondere gli uni con l’altro. Occorre costruire spazi pubblici per interventi ‘dal basso’ che mettano in discussione ruolo e scelte dei ‘rappresentanti’ (di qualsiasi matrice e provenienza), non più ‘santificati’ come espressioni della sovranità popolare o della ‘ragione storica’. La pretesa di parlare per il popolo va permanentemente sottoposta a verifica e a critica. Nel rapporto conflittuale tra movimenti sociali e rappresentanza, compresi dunque sindacati e partiti, si costituisce l’autorità popolare, espressione non di una misteriosa entità ma frutto delle mobilitazioni di massa.

3.5 La CES, organismo sindacale europeo, ha scelto di non sostenere le mobilitazioni nei paesi colpiti dai provvedimenti di austerità, i famosi PIGS, né ha promosso lotte contro le decisioni delle politiche di bilancio e contro il Fiscal Compact e l’ESM. La CES ha accettato le decisioni dell’UE sulle politiche pubbliche di aggiustamento fiscale, di flessibilizzazione del lavoro, di ulteriori ondate di liberalizzazioni e privatizzazioni. I sindacati della CES sono una componente di tutto rilievo nella gestione politica della crisi, essendo organizzazioni chiamate a contenere i conflitti, quando non proprio a sostenere il padronato nelle sue richieste.
L’esito è una precarizzazione generalizzata del lavoro, l’aumento della povertà che colpisce anche chi lavora, l’esplodere della disoccupazione, la destrutturazione dei contratti nazionali e il decentramento della contrattazione collettiva, di fatto la sua aziendalizzazione secondo il ‘modello Marchionne’. Nel pubblico impiego si continua nel blocco dei contratti, nel loro accorpamento per sminuire il peso del sindacalismo conflittuale, nell’uso della spending review per tagliare servizi e livelli occupazionali. CGIL-CISL-UIL sono soggetti attivi di questo sistema di compressione e gestione autoritaria dei rapporti di lavoro. La precarizzazione del lavoro attraverso i contratti atipici è stata accompagnata dallo smantellamento della contrattazione collettiva e dalla trasformazione del sindacato in agenzia di servizi (la bilateralità). Obiettivo, nel colpire i segmenti cd forti del lavoro dipendente, è di decentrare la contrattazione per esaltare il contratto aziendale, che può ora introdurre norme in deroga al contratto nazionale e alle stesse leggi. Obiettivo raggiunto con l’accordo interconfederale del 28 giugno 2011 e con l’articolo 8 del decreto legge n. 138/2011.

3.6 Con il regime Renzi, GCIL-CISL-UIL hanno perso perfino il ruolo di comparse del ‘dialogo sociale’ e il governo procede a elargizioni salariali con il bonus fiscale mentre rende sempre più precari i rapporti di lavoro a partire dai contratti a termine, in attesa di colpire ulteriormente quelli a tempo indeterminati con la flessibilità nei licenziamenti.
Stiamo assistendo alla fase finale del vecchio sindacalismo confederale, e in questa crisi CGIL-CISL-UIL, in complicità con il padronato, tentano di far sopravvivere il loro monopolio della rappresentanza e di trasformarsi in ‘sindacato dei servizi’. CGIL-CISL-UIL sono divenuti parte integrante e attiva della gestione delle imprese e del sistema economico capitalistico; attraverso gli enti bilaterali sono attive nell’intermediazione lavoro, nella formazione (spesso con l’uso clientelare delle risorse pubbliche), nella gestione degli istituti dell’integrazione del reddito, nell’amministrazione del welfare aziendale. Sotto la duplice pressione dei governi e del padronato si è arrivati, prima all’ Accordo 28 giugno 2011, poi al Testo unico della rappresentanza del 10 gennaio 2014,
Con il Testo unico sulla rappresentanza si afferma una concezione proprietaria di CGIL-CISL-UIL nei confronti dei lavoratori, dato che sono esse a selezionare i possibili soggetti della contrattazione collettiva. Chi non accetta le clausole dei loro accordi è escluso dalla formazione della rappresentanza e dunque dai tavoli contrattuali. Con il Testo unico si sono stabilite clausole tali da rendere ‘esigibili’ i contratti e sanzioni in modo da impedire il ricorso a qualsiasi forma di lotta, mettendo così in discussione la stessa libertà di sciopero.
Il Testo unico è un’espropriazione del diritto di tutti i lavoratori a eleggere la propria rappresentanza e uno strumento per rendere marginale il sindacalismo conflittuale. La lotta contro il Testo unico per giungere a una legge di attuazione dell’articolo 39 della Costituzione e la costruzione di un sindacalismo di classe e democratico, capace di costruire un rapporto organico con i movimenti sociali e territoriali, sono obiettivi fondamentali anche nell’ottica di costruire un progetto politico di alternativa al capitalismo.

4. ROTTURA E UNITA’. IL PROGRAMMA DI ROSS@ COME MOVIMENTO ANTICAPITALISTA

4.1. Ross@ intende promuovere nel paese – e tendenzialmente anche negli altri – un vasto movimento politico, sindacale, sociale e culturale con l’obiettivo di rompere con l’Unione Europea e la Nato. La prima perché – a differenza dell’Europa – essa non rappresenta uno spazio sociale, politico o geografico naturale per il conflitto di classe – ma perché rappresenta l’apparato che le classi dominanti europee hanno costruito per poter esercitare la loro egemonia sulle classi sociali subalterne. La seconda perché è l’apparato politico-militare attraverso cui gli Stati Uniti interferiscono sulle vicende europee, spingono all’aggressione contro altri popoli e militarizzano i territori dei paesi aderenti e di quelli subordinati. Entrambi gli apparati hanno come natura quella di perseguire l’egemonia del capitalismo sulle società dei paesi aderenti e di imporlo nelle relazioni internazionali. La rottura con l’Unione Europea e con la Nato implica la disdetta dei trattati internazionali fin qui sottoscritti dall’Italia in questi due ambiti, inclusa la parte che istituisce l’Eurozona e l’adozione dell’euro o la presenza e l’uso delle basi militari Nato e Usa nel nostro paese.

4.2. Ross@ dichiara la propria indipendenza e radicale alternatività al sistema di potere del Pd. Ross@ rivendica ed agisce per un progetto autonomo e alternativo al partito e al regime che incarna i diktat e la filosofia della Troika (Bce, Ue, Fmi). Nessuna alleanza né programma comune è possibile con il partito/sistema che ha conformato tutti i livelli del governo centrale e locale alla dittatura della governance in nome della Troika. Ross@ sostiene tutte le opzioni democratiche e di classe che fanno propria questa alterità.

4.3.Ross@ lavora per ridare rappresentanza politica e democratica al blocco sociale antagonista oggi frammentato e diviso. La ricomposizione di un blocco sociale anticapitalista, a fronte delle modificazioni intervenute nelle nostre classi di riferimento e della disgregazione sociale e culturale che ha agito in questo trentennio, è l’obiettivo che intende praticare con determinazione. In un paese con quasi otto milioni di persone senza un lavoro vero, con i redditi in caduta libera, con la istigazione alla guerra tra poveri, con i tentativi di abbassare complessivamente sia le condizioni di lavoro che le aspettative generali delle classi subalterne, Ross@ agisce per la ricomposizione possibile tra il mondo del lavoro stabile con quello precarizzato e con i settori che esprimono la vertenzialità sociale e territoriale. Per farlo bisogna guardare non solo alla prioritaria ricomposizione del lavoro subordinato, oggi frammentato e precario, ma anche ai ceti medi impoveriti dalla crisi e alla gran massa di cittadini ridotti a “scarti”. La ricomposizione di un blocco sociale antagonista è una opera di costruzione politica e di invenzione di nuove istituzioni.
Ross@ ha agito in tal senso nelle straordinarie mobilitazioni sociali, sindacali, politiche del 18 e 19 ottobre 2013 ritenendo che quello fosse il percorso da praticare e da verificare per la ricomposizione possibile di un blocco sociale anticapitalista.
La garanzia del salario diretto, indiretto e differito e la questione dell’occupazione dignitosa, continuano a rappresentare i parametri decisivi della ricomposizione possibile nel mondo del lavoro stabile e precarizzato. Il salario minimo europeo deve cominciare ad entrare nelle piattaforme dei sindacati conflittuali e dei movimenti anticapitalisti in Europa.
Ma il percorso per la ricomposizione di un blocco sociale antagonista è venuta indicando via via anche altri obiettivi fondamentali.
Il non pagamento del debito. Il debito pubblico è un affare tra Stati, banche e grandi investitori, per questo l’obiettivo di non pagare il debito non è uno slogan, Il Comitato No debito ha, fin dal suo primo appello del luglio 2011, indicato nell’UE e nella BCE, in stretto rapporto con i mercati finanziari, le nuove élites dirigenti, il vero governo dei paesi europei. Non più i partiti e i Parlamenti sono il centro della direzione politica, al loro posto ci sono la tecnocrazia europea e le banche. In Grecia e in Italia questo ruolo è anche fisicamente incarnato negli esponenti di governo. Questo del debito pubblico è un terreno di mobilitazione imprescindibile se si vuole spezzare il cappio stretto intorno ai popoli e alle stesse istituzioni rappresentative. La lotta contro il ‘consolidamento fiscale’, come pudicamente vengono chiamati i tagli a salari pensioni e servizi sociali, è la premessa per far decollare la lotta sulle ‘poste di bilancio’. Non è la rivoluzione sociale, ma la necessaria mobilitazione per respingere l’attacco che le classi borghesi, finanziarie e industriali, stanno conducendo contro i popoli.
Le nazionalizzazioni. I fatti dimostrano che la proprietà e gli interessi privati entrano in conflitto con quelli collettivi. Il caso dell’Ilva è emblematico per quanto attiene lavoro e salute. Ma anche la gestione privata del sistema bancario presenta le stesse caratteristiche. Per questo motivo diventa attuale e prioritario porre le nazionalizzazioni delle banche e delle industrie strategiche per l’economia del paese un elemento centrale di ogni progetto di cambiamento.
Il reddito sociale. In questa ottica acquista rilievo l’obiettivo del reddito minimo garantito che da anni le reti dei precari e dei disoccupati portano avanti. Occorre superare la visuale di chi scorge nel reddito minimo garantito l’esaltazione dell’ozio e del rifiuto del lavoro; esso è la risposta commisurata alle attuali condizioni del mercato del lavoro che vede le nuove assunzioni avvenire solo attraverso forme contrattuali precarie e il diffondersi dell’instabilità con il passaggio continuo da un posto all’altro. Si abbia ben in mente il tratto saliente delle politiche del lavoro: le ‘garanzie’ non devono essere fruite ‘sul lavoro’, ma devono essere date al lavoratore ‘sul mercato’. Sul mercato si confrontano, questa la realtà del capitalismo nell’era della globalizzazione, direttamente venditore e compratore di forza-lavoro secondo le regole del libero scambio senza l’intervento delle organizzazioni collettive, se non di quelle che accettano di mediare sul mercato questo ‘scambio ineguale’. La contrattazione collettiva è minata alla radice, e per ridarle una nuova prospettiva occorre attraverso un reddito minimo garantito dare forza ai lavoratori minacciati permanentemente di licenziamento, così come ai disoccupati, agli inoccupati e ai precari. Esso li può sottrarre al ricatto dell’accettazione di un lavoro qualsiasi, a un salario sempre più basso. Il reddito minimo garantito è un sostegno alla ricerca di un lavoro dignitoso, non la fuga da esso, e può sorreggere la stessa contrattazione collettiva non più indebolita dal ricatto della miseria. Non a caso alcuni sindacati di base e conflittuali, hanno assunto nelle loro strategie contrattuali il reddito minimo garantito per dare rinnovato vigore alla contrattazione potendo così fungere, si spera, da catalizzatori delle lotte disperse del precariato.

I beni comuni. La lotta per contrastare la redistribuzione del reddito ‘verso l’alto’ , che continua ormai da anni, si affianca a quella contro le privatizzazioni e la liberalizzazione dei servizi pubblici, che stanno conoscendo un’accelerazione imposta direttamente dalla Commissione Europea. L’acqua rimane la vicenda più esemplare della lotta per i beni comuni, che apre l’orizzonte verso una diversa gestione delle risorse naturali, ed economiche in generale, alternativa a quella capitalistica.

4.4. Unità e rottura nel rapporto con la sinistra e i movimenti. Ross@ nasce come aspirazione all’unità delle forze anticapitaliste nella sinistra e nei movimenti sociali e sindacali del nostro paese. A tale scopo ha perseguito percorsi unitari ogni volta che è stato possibile: a partire dal Comitato No Debito fino alle mobilitazioni del 18 e 19 ottobre e alla campagna per il Controsemestre popolare in antagonismo al semestre europeo a presidenza italiana. La riaffermazione dei propri contenuti non ha mai impedito la costruzione e la realizzazione di mobilitazioni unitarie con le altre forze.
La frammentazione del blocco sociale antagonista non consente oggi operazioni egemoniche ma richiede una grande capacità di mettere in relazione e confronto i diversi settori sociali impegnati nel conflitto di classe. Non sono oggi visibili sintesi complessive che sappiano tenere insieme rappresentanza politica, identità, radicamento sociale e strategia.
La crisi che ha logorato i partiti della sinistra non sembra essersi conclusa né aver trovato la forza per una seria rimessa in discussione che avviasse una controtendenza. Aver costruito dei veri e propri elettorati piuttosto che organizzazioni radicate nella società, il boom del funzionariato e dei professionisti della politica piuttosto che dei militanti e della militanza, l’elettoralismo, la subalternità e la corresponsabilità con il centro-sinistra prima e il Pd poi nei governi nazionali e locali, hanno prodotto una divaricazione crescente e per certi versi insanabile tra i partiti della sinistra e i settori sociali di riferimento. Le contraddizioni che hanno portato un piccolo pezzo della borghesia democratica a sostenere la Lista Tsipras appare oggi carico di incognite.
I movimenti sociali che sono venuti emergendo su questioni specifiche – per quanto rilevanti – come il diritto all’abitare o le vertenze territoriali, hanno ritenuto che questa dimensione potesse essere di per se autosufficiente per indicare una separazione con l’autonomia del politico e una prevalenza della rappresentazione sociale. La sindrome autodistruttiva e le smanie egemoniche che hanno portato al rapido smantellamento dell’alleanza politico-sociale-sindacale del 18 e 19 ottobre, stanno lì ad indicare l’erroneità di questi atteggiamenti.
Il settarismo e la frammentazione oggi dominanti nei movimenti e nella sinistra sono certo l’effetto della crisi e della disgregazione del blocco sociale antagonista, ma sono anche il risultato di atteggiamenti che sono stati perseguiti coscientemente e che hanno solo aggiunto macerie alle macerie. Se si vuole ritrovare una funzione reale alla sinistra politica e sociale nel nostro paese questo è possibile solo dandosi un progetto unitario ed organico che miri alla ricostruzione, paziente e sistematica, del rapporto con il blocco sociale penalizzato dalla crisi e di una identità nettamente anticapitalistica.
Ross@ intende perseguire l’unità e la rottura. L’unità con tutti i soggetti politici, sindacali e sociali che intendono esercitare una opposizione coerente e intransigente a tutti gli apparati del capitalismo reale nel nostro paese, in Europa e non solo. La rottura con le forze che accettano l’orizzonte capitalista come l’unico possibile e modificabile dal suo interno. Il riformismo del XXI secolo porta fuori bersaglio anche più che in passato, perché oggi è evidente a tutti che i margini della redistribuzione e della democratizzazione del sistema sono in via di liquidazione.

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